Drammatico, Thriller

SWALLOW

TRAMA

Hunter è una giovane casalinga, moglie di Richie, giovane rampollo esclusivamente interessato alla propria carriera e alla propria immagine. Hunter è trattata da tutti con sufficienza ed inizia a ricevere attenzioni solo nel momento in cui scopre di essere incinta.

RECENSIONI

È una moglie-trofeo in casa-di-bambola Hunter, protagonista dell’esordio di Carlo Mirabella-Davis. Una bella statuina, che l’agio altoborghese garantito dalla famiglia di lui, rampollo d’industria gestita da soli uomini, trascina in un tempo generico e sospeso. E infatti Hunter – gli occhioni sgranati, i sorrisi malcerti, la voce spezzata dalla timidezza, credono loro, ma invece è il panico – somiglia, più che alle sue contemporanee, alle casalinghe di Douglas Sirk (o, semmai, alle loro epigone à la Todd Haynes). L’unica forma possibile di disubbidienza, per lei che deve prima di tutto figurare, passa dal di dentro. Letteralmente: Hunter, scopertasi incinta quasi suo malgrado, comincia a ingerire piccoli oggetti. Senza scopo manifesto, se non il dubbio malsano di vedere che succede. Una biglia, una puntina, poi una pila o una graffetta. Minuscoli corpi contundenti per infierirsi cicatrici interiori invisibili, di cui – crede Hunter – non dovrà render conto a nessuno. Manufatti alieni che abitano la carne tormentata di lei, utili a ridimensionare la minaccia incombente del feto che ha in pancia, a renderlo un corpo estraneo fra i tanti. Una volta espulsi, Hunter recupera gli strumenti del suo martirio, li ripone in fila ordinata, li custodisce gelosamente: lei che è un soprammobile, rivendica il diritto ad ammirare i suoi ninnoli. Pretende, attraverso il dolore, di recuperare il contatto con un corpo altrimenti solo agìto, abitato distrattamente. Lo stesso corpo che, nelle mani di un regista diverso, sarebbe potuto diventare scenografia di uno splatter gastrico grottesco. E invece Mirabella-Davis flirta con l’orrore, lo nutre drammaturgicamente, ma non lo sostanzia figurativamente, prediligendo alla spirale allucinata presagita dalle premesse un registro ancorato a un naturalismo di fondo. E infatti il secondo atto è l’ingigantirsi graduale di una frattura, l’aprirsi di due guerre che Hunter deve combattere in contemporanea: sul fronte interno, tra la compulsione autodistruttiva a ingerire e la necessità di dominarla; sul fronte esterno, tra i tentativi di irreggimentazione della famiglia acquisita e il suo desiderio di autodeterminazione. Subentra la backstory di Hunter, si moltiplicano i piani di lettura: forse Swallow è un rape and revenge per procura. La grammatica rigorosa di Mirabella-Davis comincia a sfilacciarsi, ma non è stanchezza: è che il suo sguardo si fa più disordinato e frettoloso quanto più si scardina la legge del padre, e che il suo cinema mima l’accartocciarsi progressivo della gabbia ortogonale che crocifiggeva la protagonista al centro del quadro. Fino a un epilogo caotico, e dunque liberatorio.