TRAMA
Frank Darbo ce l’ha con il Mondo intero.
RECENSIONI
Nel mare magnum delle ultime contaminazioni cinefumettistiche, si va delineando un particolare sottogenere, d'ascendenza Watchmeniana, propenso a turbare l'ordinaria realtà di figure anonime e sottodotate con un immaginario superomistico impiantatovi a forza, affidandosi al cortocircuito tra vita e fumetto per svecchiare (o rottamare) un'iconografia altrimenti logora. Tale tendenza, conclamatasi di recente con un pugno di titoli (Kick-Ass, Defendor, Special, Griff the Invisible, Noise), sgonfia di retorica il racconto di formazione dei suoi self-made super-heroes, prediligendo la disamina sofferta - per certi versi diagnostica - di eroi improvvisatisi tali, sprovvisti di superpoteri, eticamente ambigui e mentalmente instabili. Super sembra eleggere a protagonista tale scarto d'immaginario, drammatizzando le insanabili divergenze tra nevrosi e realtà in un brutale (seppur demenziale) esempio di psicopatologia superomistica, dove al formalismo indolore di Scott Pilgrim vs. The World si preferisce il traumatico bagno di realtà à la Kick-ass, ribadendone così lafflato grottesco e disturbante, l'iperrealismo malato e chiaroscurale. Come a dire che all'illusione supereroica, martoriata e ridotta a cruda cronaca, non spetta la celebrazione entusiastica, ma la dissacrazione psicanalitica. Puntando a ridicolizzare idealismi e infantilismi di un uomo ossessionato dalla perdita della moglie, Gunn pensa bene di deformare l'abituale favola del 'riscatto sociale con calzamaglia' dando voce al baratro mentale in cui piomba il protagonista, inebriato da fantasie eroiche, chimere sentimentali e fanatismi religiosi. Certo, la black comedy di Gunn vola sempre bassa, ad altezze scatologiche: la verve anticonformista è attutita da spoglie routinarie e farsesche, avvilita da una messa in scena sciatta e abborracciata, confusa da slittamenti di registro repentini e spesso gratuiti. Ma l'affondo sboccato e iconoclasta sulla schizofrenia del super-eroe, abbracciando risvolti apertamente parodici (sulla falsariga degli Zebraman di Miike), ben s'accorda con l'attitudine tromiana di Gunn, sceneggiatore di fiducia di Lloyd Kaufman e già responsabile del b-movie Slither (divertito impasto horror di stilemi ottantiani, omaggiante numi tutelari quali Yuzna e Henenlotter). Tingendosi di gore e scorrettezza politica, Super rielabora, inacidita e bislacca, la parabola dell'ennesimo paladino d.i.y., qui nelle vesti rattoppate del bigotto e squilibrato Saetta Purpurea, derisoria miniatura filmica dei Real-Life Superheroes (pagando così pegno all'attualità, di cui il filone è derivazione parassitaria) e caricatura trash di certo giustizialismo bushiano (anche per Saetta Purpurea il sostegno divino giustifica l'assurda violenza delle ritorsioni).
L'affanno di gruppo con cui si chiudono i titoli di testa già esibisce l'intento di ridimensionare il modello superomistico, umanizzandolo nel più goffo contingente, protraendone i tempi e gli spazi attraverso l'infarcitura, digressiva e trasgressiva, dei tempi morti 'tra le tavole". Perché di umanità si tratta, impotente e narcisista, incapace di gestire la propria inadeguatezza se non immaginando (e affrontando) la vita entro coordinate pop prestabilite, appartengano alla lingua del fumetto o del serial televisivo (lo provano la stessa conversione di Darbo, innescata dal telefilm del Santo Vendicatore, e la scena dell'annunciazione tentacolare, diretta filiazione grafica dell'hentai anime trasmesso in tv). Anche l'assetto visivo ne viene contaminato, sfregiato da sparsi graffiti sovrimpressi che variano da lampi onomatopeici ad animazioni fugaci, segni posticci e artificiosi del collasso di Darbo nella propria astrazione grafica e mentale (è dunque lontana l'orgia visiva immaginata da Scott Pilgrim, per l'incuria dell'ibridismo linguistico e la schietta volgarità dell'assunto). Gunn decolora il suo piccolo mondo lasciando intatti dettagli di poco valore (evidenziati nei flashback), sfibrando ulteriormente la credibilità di una materia trattata in chiave sarcastica, prendendone le distanze con artificialità siderale e ridicolizzando con leggero sadismo le devianze comportamentali del presunto supereroe. Quando la follia punitiva di Darbo si accompagna all'esagitata efferatezza della sidekick Libby (una spudorata e sanguinaria Ellen Page) si è già al dissidio etico del film: le rappresaglie a colpi di chiave inglese fungono solo da sfogo egotico, non più imprese a difesa della comunità ma carneficine futili e autoindulgenti, mosse unicamente da motivazioni personali e tic sociopatici (come i raid del Rettificatore di Noise).
L'insania del giustiziere deflagra insieme al riso isterico di Libby, vera scheggia impazzita, senza però sfiorare l'archetipico scontro di follie complementari che fondava la dialettica supereroe/antagonista di Killing Joke, pietra miliare del graphic novel superomistico, o dell Unbreakable shyamalano, suo sostanziale (e insuperato) corrispettivo filmico. I villain di Gunn, macchiette cartoonesche e ben poco problematiche, servono da mero contorno una barzelletta acre, dove il compiaciuto crescendo di macelleria exploitation vanifica le premesse psicologiche sin lì gettate, allineandosi alla feroce indifferenza dei due super-eroi e sottoscrivendo pigramente la patologica indistinguibilità tra realtà e costrutto pop. Il fallimento del privato è mascherato da proclami di pulizia sociale e da evidenti alibi psicologici: quella di Frank è una ripicca contro un mondo di felicità 'sopravvalutata e arrogante', tentativo tardo-adolescenziale di evadere da una realtà inaccettabile perchè colpevole di richiamarlo all'ordine della Norma, alla miseria di una forma, la sua, sgraziata e rancorosa. Ma a ben vedere, il cinismo di cui è impregnata l'opera umilia la pretesa di Frank dema'nciparsi, abbruttendola in mania persecutoria (l'ossessiva ricerca della moglie, ai limiti dello stalking) e (im)pietosa autocommiserazione (la preghiera a Dio). Non cè catarsi che tenga, perchè il Paladinismo di Frank è nevrosi sorda, che si autoalimenta, ostinata, al solo scopo di riconquistare, per un brevissimo attimo, la sua Sarah. Al termine del bagno di sangue, il film è al suo vicolo cieco, chiudendosi in un forzato ritorno all'ordine, resa ipocrita spacciata per rassicurante accettazione di sé. Perché isolare il reazionario Frank tra le mura ovattate di una rinuncia terapeutica? Perché reintegrarlo nella solitudine, fino a quel momento rabbiosamente rifiutata? Quest'improvvisa consapevolezza di stare al mondo suona come una brusca ritrattazione, prova della dissociazione di cui soffre - più o meno consciamente - il film stesso, e seda, con patetismo furbo e sbrigativo, un personaggio fino a quel momento maltrattato dal ghignante gioco parodistico. Anche per Gunn, adagiarsi nel conformismo è l'unica vera via di fuga. Il tradimento è tratto.
Dario Stefanoni & Marco Compiani