TRAMA
Anno 2057. Il Sole si sta spegnendo, mettendo a rischio la sopravvivenza del genere umano. L’equipaggio della navicella spaziale Icarus II, pur consapevole del fallimento di una precedente missione, fa rotta verso la stella morente, nel disperato tentativo di invertire il processo attraverso il lancio di un ordigno nucleare.
RECENSIONI
Ci sarebbero miliardi di cose da dire su Sunshine, sicché è bene non farlo. O meglio è bene per lo scrivente (e anche per il leggente in fin dei conti). Ma una cosetta proprio non ce la faccio a tacerla. Il film di Boyle (a mio avviso il più convincente di una non indimenticabile filmografia, che tra l’altro non conosco per filo e per segno) si presenta come una riflessione metafisica che usa il genere sci-fi a mo’ di vettore narrativo: il sole come manifestazione visibile di un’essenza superiore, un viaggio cosmico che supera i limiti della ragione e dell’esperienza (l’insufficienza dei modelli di simulazione, il fallimento della prima missione Icarus), l’oltracotanza umana che intende riaccendere la stella madre a suon di ordigni nucleari. Stanti questi presupposti, Sunshine sembrerebbe puntare altissimo, non quanto The Fountain beninteso, ma solo un pelo più in basso. E poi Kubrick, Tarkovskij e compagnia scottante. Vi è vertigine. Eppure guardando il film tutte queste presunzioni rimangono tali, senza osteggiare tronfiamente la visione. Che visione è e resta, per fortuna e per tutta la pellicola. Ma il punto non è questo, l’aspetto su cui mi preme porre l’accento è che di metafisico c’è proprio pochino in Sunshine. In compenso il cinismo ruscella: mai vista così tanta disinvoltura nel risolvere la questione del sacrificio personale (tranne un caso isolato). C’è da dare la conferma di un ordine che coincide con la propria morte? Nessuna esitazione: ordine confermato. Non c’è ossigeno a sufficienza per il viaggio di ritorno? Pazienza, non ci saranno festeggiamenti. Che fare di un depresso in odore di suicidio? Lo incentiviamo. Deh. Eppure sarebbero frangenti colmi di problematicità. La direzione è chiara e assolutamente condivisibile: bando ai dilemmi morali, avanti con le decisioni concrete. La stessa componente trascendentale, aleggiante nel confronto col principio vitale per eccellenza, la luce, viene ricondotta né più né meno che alla follia. Un bruciato - a tutti gli effetti - farnetica di dialoghi con Dio, superbia e enormità simili, andando in giro per la navicella ad affettare chi lo deconcentra. Facendo del trascendente un prodotto del delirante (metaforicamente e letteralmente), Boyle e il fido sceneggiatore Alex Garland abbassano la temperatura spirituale del film, a tutto vantaggio della tensione e della tenuta drammatica. Persino il finale, incastrato tra il ribollio solare e la fissione nucleare non oblitera l’uomo, emblematicamente rappresentato dal fisico Robert Capa (Cillian Murphy), metro e misura dell’universo. E questo orizzonte integralmente umanista, infine, arricchisce la riflessione sul tragico contemporaneo (in che razza di ginepraio mi sono cacciato), ricollegandosi al discorso iniziato con Edmond e proseguito con Gli innocenti. Superando la formulazione di questi due film (in cui la tracotanza coincide con l’adeguamento della condotta di vita a un ideale), Sunshine tuona un monito atroce: superbia è sopravvivere. Nel 2057 come oggi. Ohibò.
Danny Boyle ha fatto tre nomi, assai nobili: 2001, Solaris e Alien. Vero. Però se ne dimentica altri, forse un po’ meno nobili, ma non meno presenti nel suo Sunshine, sia a livello tematico-generale (Armageddon, The Core) che a livello “atmosferico” (Silent Running[1], con tanto di serra) che a livello di citazione circostanziata a singole sequenze (la passeggiata nello spazio con sacrificio finale di Mission to Mars). C’è però un film in particolare al quale Sunshine paga debiti pesantissimi, ed è Event Horizon di Paul W.S. Anderson: sostituendo il BucoNero/Inferno/Diavolo di Anderson col Sole/Paradiso/Dio di Boyle si ottengono infatti due sinossi paurosamente simili, con omologhe derive horrorifiche e identico guastafeste finale, Ustionato del Signore/Maligno. Se si unisce questa natura fortemente derivativa alla solita sceneggiatura di Garland, efficace a tratti ma complessivamente “sfilacciata” e sempre sul punto di sbracare, è ancora più sorprendente constatare come Boyle sia stato (di nuovo) in grado di nobilitare il suo lavoro; specie nella prima parte, l’alternanza di primissimi piani dei protagonisti e di lunghissimi campi “spaziali”, appena vivacizzati da lenti movimenti di macchina, la scura fotografia squarciata da maestose irruzioni solari, il ritmo meditabondo imposto al film, tutto contribuisce a insinuare la giusta atmosfera e a restituire, in modo cinematograficamente efficace, la contrapposizione tra quelle due realtà (soggettiva-finita-umana / oggettiva-infinita-universale) destinate a incrociarsi nella svolta mistico-religiosa finale. Questo nonostante tutto – ossia – nonostante il già citato scheletro narrativo risaputissimo, nonostante alcuni dialoghi discutibili, nonostante qualche plot twist forzato, nonostante le indulgenze action-horror di livello dubbio, nonostante uno sviluppo drammatico involuto che perde progressivamente nitidezza e nonostante un (soprattutto pre-)finale metafisico un po’ irrisolto. Ma ci sta, e va bene anche così.
Sunshine sta alla fantascienza come 28 giorni dopo all'horror. Un tentativo poco riuscito di rivitalizzare il genere cavalcandone gli stereotipi. Non è quindi un caso che entrambi siano diretti da Danny Boyle e abbiano titoli di coda quasi sovrapponibili (il produttore Andrew Macdonald, la sceneggiatura di Alex Garland, la scenografia di Mark Tildesley, il montaggio di Chris Gill e pure il protagonista Cillian Murphy). Il soggetto è interessante, con l'ipotesi di un sole spento che necessita di un gruppo di volontari disposti a rischiare la vita per riaccenderlo, ma resta punto di partenza e di arrivo intorno a cui ruotano luoghi comuni e idee riciclate. Non basta la sincerità di Danny Boyle nel dichiarare che i modelli di riferimento sono, tra i molti altri, Alien, Solaris e 2001: Odissea nello spazio, per rendere digeribile un lungometraggio che ripropone atmosfere e situazioni viste e straviste. Restano, infatti, viste e straviste. Così come non è sufficiente rallentare il ritmo e stilizzare la regia, dando più l'idea di ciò che accade che mostrandolo chiaramente, per ambire all'aggettivo "filosofico" o a una sorta di profondità nei temi trattati (l'uomo di fronte all'ignoto, i misteri dell'universo, la contrapposizione tra scienza e fede). Lo stile personale di Boyle, infatti, cela coordinate narrative risapute (un gruppo di uomini e donne deve salvare l'umanità e con le difficoltà comincia il conto alla rovescia delle vittime sacrificali), aggiornate ai tempi solo nel cinismo, ma con dialoghi incolori, caratterizzazioni deboli e snodi prevedibili (un cattivo non può mancare) o assurdi (per proteggersi nello spazio siderale, in assenza di una tuta, basta un po' di stagnola). Non aiuta la giovane età dei componenti dell'equipaggio, più adatti a una convivenza forzata nella casa di un "Grande Fratello" interrazziale che credibili come esperti scienziati e astronauti. A peggiorare le cose il fatto che gli eventi si susseguono con cadenza episodica, senza riuscire a creare un'organicità in grado di appassionare. Poco potente anche il finale, che ridonda in tutta fretta (la replica dell'ultimo video messaggio del protagonista) e non sfrutta l'alto potenziale emotivo e poetico a disposizione.