
TRAMA
Il 15 gennaio 2009 un aereo della US Airways decolla dall’aeroporto di LaGuardia con 155 persone a bordo. L’airbus è pilotato da Chesley Sullenberger, ex pilota dell’Air Force che ha accumulato esperienza e macinato ore di volo. Due minuti dopo il decollo uno stormo di oche colpisce l’aereo e compromette irrimediabilmente i due motori. Sully ha poco tempo per decidere e trovare una soluzione.
RECENSIONI
Da un certo punto in poi non c'è più ritorno. Quello è il punto da raggiungere.
Franz Kafka
Cosa aspettarsi da un Clint Eastwood che decide di affrontare la storia di Chesley Sullenberger, il pilota che, all'inizio del 2009, salvò più di 150 passeggeri facendo atterrare nel bel mezzo del fiume Hudson l'aereo che stava guidando, dopo che questi era stato messo fuori gioco dal contatto violento con uno stormo di uccelli di passaggio? I più disattenti e superficiali, quelli che sistematicamente snobbano i tentativi più eccentrici dell'ultimo Eastwood, come Hereafter o Jersey Boys, avranno sicuramente la risposta pronta in tasca: si tratta, non c'è dubbio, di un'apologia del valore e insieme dell'imperfezione umana, di contro alla gelida perfezione delle macchine. In mano ai guastafeste di turno (qui la National Transportation Safety Board, un organismo di controllo governativo che si occupa di investigazione sugli errori nei voli per ragioni di sicurezza), naturalmente, le macchine sono lì per attestare che forse Sully avrebbe potuto agire altrimenti, e dunque nessun risarcimento può legittimamente venire elargito - ma che ne sanno la macchine della pressione che si prova in una circostanza del genere, e della necessità di prendere in un baleno una decisione che potrebbe causare la morte di decine di persone, ma che potrebbe tuttavia anche salvarle? Ebbene, no. Il film non è nulla del genere. Eastwood anzi fa di tutto per scegliere una terza via: né con il facile elogio dell'eroismo e dell'imperfetto ma prezioso intuito umano, né con la cinica oggettività delle macchine. E riesce a smarcarsi da entrambe queste prospettive dando al suo racconto una struttura di diabolica sottigliezza. Scorrono le prime immagini, vediamo Tom Hanks e Aaron Eckhart in cabina ai comandi, appaiono le prime avvisaglie di un problema all'aereo, dunque sappiamo già cosa aspettarci di lì a poco: la ricostruzione dell'atterraggio di fortuna. Ebbene, no. Vediamo l'aereo schiantarsi contro un grattacielo newyorkese – ma si tratta solo di un incubo, sognato da Sully la notte successiva alla sua impresa. In seguito, avrà altre visioni di simili catastrofi (mancate), mentre tutt'intorno la commissione NTSB gli intima che in effetti c'erano tutte le condizioni affinché l'aereo potesse atterrare tranquillamente nell'aeroporto da cui era partito poco prima. È chiaro: se il film fosse partito dall'incidente per poi proseguire in maniera lineare verso il processo contro Sully ed approdare infine al trionfo dell'eroe, il gesto di Sully sarebbe stato un dato acquisito in partenza senza ambiguità, che si sarebbe dunque trattato nel resto del film di difendere dai “cattivi” per poi metterlo sul piedistallo che si merita. Ma non è questo che interessa a Eastwood. E infatti l'enunciazione dell'ipotesi per cui “sì, certo, le macchine possono simulare quasi tutto alla perfezione, ma non potranno mai ricostruire un evento completamente perché mancherà sempre quella visione complessiva su di esso che solo il fattore umano può garantire”, viene messa in bocca proprio ai cattivi, alla commissione, nel corso della decisiva udienza finale. Subito dopo, infatti, Sully dissente apertamente, dicendo che no, le cose non stanno così, la verità sta da un'altra parte.
Perché, dunque, un simile incipit onirico? Perché il punto non è mettere l'Umano (e il relativo imperfetto eroismo) su un piedistallo, ma piuttosto riconoscere che la potenza e l'atto sono fuori asse, in nociva disgiunzione. Anche davanti al fatto compiuto, e compiuto non in un modo a caso, ma nel migliore dei modi possibili, ebbene, persino in quel caso non ci si riesce a liberare dal dubbio che le cose avrebbero potuto andare diversamente. E nella voragine scavata da questo tarlo, si infila la malafede dell'NTSB. Ma il problema non è l'NTSB: il problema è a monte, e sta appunto in questo dubbio, che si direbbe quasi connaturato all'esperienza stessa e alla condizione dell'Umano. Ecco, appunto: si direbbe. Perché le cose non stanno esattamente così. E non stanno così perché quello che Eastwood contesta è proprio che l'Umano possa essere solo quella cosa lì, e cioè l'agente di una ineffabile sintesi che tramuta la potenza in atto, che converte l'insieme caotico delle potenzialità in un fatto compiuto. Ma se si vede l'Umano in questa maniera, sembra dirci Eastwood, per forza poi l'uomo è tormentato a prescindere, anche quando agisce per il meglio, dal fatto che sia rimasto qualcosa, della potenza, che non è diventata atto ma che avrebbe potuto esserlo. Nemmeno necessariamente dovuto, ma anche solo potuto: far schiantare l'aereo come riportarlo senza alcun danno all'aeroporto da cui era partito, indifferentemente. L'unico rimedio a questa angoscia è dunque quello di inventare daccapo un'altra forma dell'Umano – che poi vorrebbe dire riconfigurare l'articolazione stessa tra potenza e atto. L'Umano, secondo quest'altra versione, sarebbe non l'operatore della sintesi che trasforma la potenza in atto, ma colui che esaspera il proliferare della potenza a prescindere dall'atto. Davanti all'abbondare “ansiogeno” e paralizzante delle potenzialità, l'Umano è ciò che si mette al servizio del puro dispiego delle potenzialità, anziché limitarlo e convogliarlo verso l'azione. Non è insomma l'imperfetto e intuitivo agente della sintesi, ma il freddo e spietato esecutore dell'analisi. La sintesi seguirà, ma a quel punto non è più affare dell'Umano, bensì piuttosto del mito dell'Umano (che nel film viene incarnato dal co-pilota, decisissimo a vedere in Sully un eroe, anche davanti al suo incessante schermirsi). In questa piccola differenza, ci si gioca tutto. Sully è un eroe (e la quintessenza dell'Umano) non in virtù del suo gesto. Sully è un eroe (e la quintessenza dell'umano) perché riscrive e reinventa retroattivamente il proprio gesto riprocessandolo nella memoria, e così facendo riesce a trovare la chiave per difenderlo in tribunale. Per questo, il provvidenziale naufragio lo vediamo solo in flashback, a metà film, quando ormai sappiamo già per filo e per segno com'è andata. In esso ci viene illustrato che rappresentare coerentemente la catastrofe vuol dire fare attecchire quest'ultima sulla rappresentazione stessa; nel racconto “catastrofato” del naufragio, qualsiasi spunto drammaturgico (una messe di nuovi personaggi inopinatamente introdotti a metà film affinché lo spettatore non si annoi nel vedere un evento di cui sa già tutto) viene brutalmente falcidiato, e ridotto a una micidiale orizzontalità che è in fondo la più autentica cifra di tutta questa parte del film: un'emorragia di dettagli e percorsi narrativi che continuano a proliferare senza mai verticalizzarsi in qualcosa come la costruzione di qualche tensione. Un ammasso di frammenti che tra loro trovano quasi solo coordinazione, e quasi mai articolazione. La corda si sfilaccia in un'infinità di fili. L'analisi regna sovrana. La sintesi è non pervenuta: arriverà solo alla fine, quando tutti nel tribunale ascolteranno assorti la registrazione audio di ciò che successe in cabina nel giorno del provvidenziale naufragio, in un secondo flashback molto più compatto del primo, girato quasi solo in cabina, e interamente costruito in modo da enfatizzare il carattere estremo della situazione, e l'istintiva risoluzione di Sully. E infatti il punto di vista dominante in questo frangente è il co-pilota, determinato a fare dell'Umano (e cioè di Sully) un mito.
È in questo diligente esercizio narratologico di virtuosistica impersonalità da parte dell'istanza raccontante (o rimemorante) che Sully reinventa il suo gesto e trova la giusta chiave per trionfare davanti agli avversari. È lì, infatti, che arriva a perfezionare compiutamente l'eclissarsi della sua soggettività, riducendo quest'ultima a qualcosa di puramente quantificabile, e cioè trentacinque secondi. Tale è, infatti, il lasso di tempo che occorre alla mente umana per riprendersi dallo shock di una situazione che le mette davanti non una soluzione razionale, ma più soluzioni parallele che inevitabilmente paralizzano (per quanto temporaneamente) anche la più razionale facoltà di scelta. Le simulazioni di volo tengono in conto tutto, tranne questi trentacinque secondi. Se vengono inclusi questi (come è appunto Sully a suggerire alla corte), anche le inattaccabili simulazioni vanno in tilt. Sully non è dunque l'Umano che vince contro la macchina. Sully è l'Umano che vince perché è più macchina della macchina. È l'agente impersonale dell'analisi e della dissezione, e dunque del dispiego “celibe” e “catastrofico” della potenzialità in sé e per sé; alla ricomposizione sintetica ci pensano quelle due entità speculari che sono la Scienza (l'NTSB e le loro perfette simulazioni di volo) e il Mito (il co-pilota), le quali all'inizio del film partono l'una contro l'altro, ma si ritrovano allineati strada facendo. E questo perché né l'una né l'altro si trovano ad occupare un livello davvero fondamentale: a occuparlo è piuttosto l'Umano, come entità disgregativa di ciò che è già disgregato. Il punto decisivo è che c'è una distinzione, tra Sully come epitome dell'Umano da un lato e l'oggettività scientifica della Scienza e l'arbitrio del Mito dall'altro. Distinzione che poi corrisponde, nel film, a quella tra il primo flashback del provvidenziale naufragio e il secondo, tra quello dall'implicito punto di vista di Sully e quello dall'implicito punto di vista del copilota. Come dire: c'è sempre uno iato tra un'azione e la sua iscrizione nel campo simbolico, cioè nella sfera di quello che potremmo chiamare il “sapere riconosciuto” o “ufficiale”; quello stesso iato che spiega perché la moglie di Sully solo a distanza di giorni telefona al marito e gli dice “sai, solo adesso ho realizzato quello che hai fatto e quanto miracolosamente tu sia ancora vivo”. L'Umano può installarsi solo nella divaricazione di questo scarto. Questo è ciò che fa Sully. E Eastwood lo segue, trattando in maniera sistematicamente glaciale le effusioni (un bacetto sulla guancia, un abbraccio, un barista zelante che dice “abbiamo inventato un cocktail a tuo nome”) che i riconoscenti abitanti di New York tributano al pilota. In questo modo, l'Umano palesa la sua differenza dal Mito dell'Umano senza che il secondo venga negato o stigmatizzato, ma semplicemente evidenziando la distanza tra i due.
