TRAMA
Charlie, regista di teatro, e Nicole, sua moglie e prima attrice, hanno un figlio e si stanno separando. Lui lavora a New York, lei si è trasferita a Los Angeles per lavorare in televisione.
RECENSIONI
THIS IS NOT A LOVE STORY
La storia di un matrimonio. Non una storia d’amore, dunque, ma quella delle conseguenze dell’amore, di quel legame affidato a una convenzione fatta di regole dichiarate e tacite, di un compromesso che è valso fin quando non sono emersi elementi inediti, di un rapporto di forze, attestato su una dinamica precisa, che nuove circostanze hanno messo in discussione. Per questo il lungo prologo sembra celebrare l’unione tra i due protagonisti laddove, invece, si rivela l’atto dovuto a un mediatore familiare, la prima frazione del percorso della separazione. È come se Baumbach ci dicesse: pensavate che parlassimo dell’evoluzione di un sentimento, invece trattiamo della risoluzione del rapporto a cui ha dato vita.
Nei resoconti che Nicole e Charlie consegnano al consulente emerge una caratteristica comune, l’unica che ciascun coniuge ravvisa anche nell’altro: la competitività. Nicole e Charlie sono competitivi e si riconoscono reciprocamente come tali. Per Charlie la competitività nell’agone divorzistico sarà diretta a riaffermare la posizione di leadership nella coppia, laddove essa è stata minacciata: l’affidamento del figlio. Il piccolo Henry è il tavolo del Monopoli sul quale la coppia gioca la sua partita. Non c’entra l’amore, c’entra il principio, c’entra l’affermazione del sé messo in discussione. Non c’entra il figlio, c’entra l’orgoglio e il riconoscimento dei propri meriti (Charlie si ritiene il pigmalione della moglie che vede culturalmente e professionalmente dipendente da lui: se Nicole, da interprete di un brutto teen movie, è poi diventata una brava attrice lo deve a lui). La miopia del personaggio, il suo egoismo, passano da qui: dal non rendersi conto della frustrazione della consorte, dall’ignorarne le esigenze, dal vederla sempre e solo come uno strumento del suo genio. Nel non accorgersi della sua crescita e del suo cambiamento: Nicole non è più disposta a vivere alla sua ombra, vuole affermarsi fuori dall’ingombrante sfera d’influenza del marito: così quel lavoro in tv agli occhi di Charlie rende la donna non più controllabile, possibilmente autonoma, non più corporativa nel perseguimento di quello che riteneva un progetto comune (il suo teatro, la sua invenzione). Infatti l’ingaggio per lo show gli parrà accettabile solo quando vedrà nei soldi guadagnati dalla moglie possibili finanziamenti per le sue produzioni teatrali.
Charlie è talmente compreso in questo derby New York - Los Angeles da non interrogarsi nemmeno sull’interesse del figlio, da non ammettere che Henry sta bene con la madre a Los Angeles (il bambino glielo dice chiaramente), che la sua dislessia è più importante di qualsiasi disputa. Quando l’avvocato Spitz (Alan Alda) gli fa un discorso realistico che mette in evidenza questo aspetto («La vera vittoria è quello che è meglio per Henry») la sua reazione sarà il licenziamento dell’avvocato e l’assunzione di un legale-mastino (Ray Liotta). Anche se questa mossa comporta un esborso di denaro spropositato che metterà a repentaglio la possibilità di assicurare al figlio un’istruzione adeguata. Non importa cosa vuole Henry né il suo futuro, non importa quello che è stato, quell’amore con Nicole ormai naufragato: questa non è una love story, l’amore non c’entra, è finito prima ancora che il film cominciasse, questa è una marriage story: c’entra l’ego e le sue ottuse motivazioni. La ragione è offuscata, i desideri dei due non combaciano più, restano in gioco sentimenti contraddittori fatti di odio e tenerezza, rabbia e affetto. E una cura reciproca che si muove tra il riflesso condizionato, l’omaggio al passato e il rispetto per l’altro genitore del proprio figlio. Un rispetto che l’una e l’altro non sembrano mai mettere in discussione (teoricamente, idealmente). Ma che nei fatti, invece, complice la destabilizzazione derivante dalla rottura e l’intervento dei legali, è calpestato come se la lotta fosse inevitabile, come se questa non potesse essere che sporca.
Non c’entra l’amore in Marriage Story. C’entra che in questa coppia che opera nel settore artistico, laddove la personalità è parte integrante del discorso professionale, non possono esserci due registi, ma un(a) regista e un(‘) interprete. O una musa, al massimo. Nicole non può farcela da sola a riaffermarsi, ha bisogno di un legale, perché è l’unico modo per non soccombere ancora una volta alla logica maritale. Si affida a Nora, forza la sua natura e quella del rapporto. E dà avvio a un’escalation deleteria.
Se la coppia implode, all’amore subentra l’interesse (L’economie du couple, come l’ha definita Joachim Lafosse), il cinismo, quell’istinto primario e un po’ bestiale che il sistema giuridico, e coloro che su di esso mangiano (letteralmente: il pranzo ordinato al ristorante durante la riunione con i legali è squarcio di realismo simbolico), sono pronti a rinfocolare fino alle estreme conseguenze. Così Nicole si fa manovrare dalla sua avvocata che bada solo alla vittoria, non al modo in cui ottenerla (quello umano è un aspetto che, tutto sommato, non le compete). Così Charlie risponde per le rime. Così entrambi bombardano tutto, persino ciò che potrebbe essere salvato, anche se (teoricamente, idealmente) vorrebbero un armistizio e una soluzione ponderata e condivisa. E a quella giungono dopo uno sperpero di sostanze, quando, chiusa la causa, tornano se stessi e si sbarazzano delle sovrastrutture legali che il divorzio ha attaccato loro addosso. A quel punto, quando il ruolo di Nicole è stato riconosciuto, la donna può anche prescindere da quel vantaggio che la legge le ha concesso e gestire la situazione in base al buon senso. L’essere diventata una regista, avere già ottenuto dei riconoscimenti (la nomination all’Emmy), le dà sicurezza: può guardare il marito dalla stessa altezza artistica e dunque esistenziale.
Baumbach, alle prese con un soggetto autobiografico (il suo divorzio da Jennifer Jason Leigh e, chissà, magari anche il suo rapporto con l’attrice-regista Greta Gerwig) e con un’autoanalisi impietosa, è come al solito un maestro nella gestione della materia narrativa [1] e nel mescolare i generi (nel finale, che si rispecchia nell’inizio e lo completa, la chiave da commedia romantica viene ribaltata in dramma strappalacrime; la scena della consegna della busta del divorzio o quella dell’ispettrice che osserva la vita di padre e figlio sono passaggi brillanti che descrivono situazioni dolorose). Certo, la focalizzazione sulla coppia rende gli altri personaggi un contorno puramente funzionale (tutti, compresa la ipercaratterizzazione della Nora di Laura Dern - un sospetto di overacting mi rimane -: si confronti il modo in cui in Meyerowitz ogni carattere aveva la sua rilevanza, la sua storia, il suo peso , tanto da non poter immaginare il film senza). Ma è interessante il modo in cui il montaggio fa del campo-controcampo tra gli avvocati il riflesso perverso di quello tra i coniugi e di come dipinga il figlio - vero ago della bilancia, ma presenza costantemente data per scontata (anche dallo spettatore) - come fattore ambivalente, residuale trait d’union e muro divisorio a un tempo (quel cancello). E come il faccia a faccia decisivo venga inscenato in un appartamento nudo che restituisce il senso della discussione che ospita: un duello al sole, in cui tutto ciò che si è represso viene a galla, senza filtri, in modo violento. È peraltro in questa scena, così dichiaratamente drammatica, che la scrittura mostra una programmaticità corriva che solo le splendide interpretazioni di Driver e Johansson fanno passare in secondo piano.
E certo, quello di Baumbach è un cinema che continua a nutrirsi di altro cinema, un tessuto imbevuto di tante essenze, in cui si intrecciano riferimenti e ammicchi cinefili (il figlio avuto da Jennifer Jason Leigh si chiama Rohmer, del resto), a volte impensabili e lontanissimi (prima o poi elencherò tutti quelli che ho raccolto nella sua filmografia). Dal consueto Bergman (Scene da un matrimonio che, ovviamente, Charlie e Nicole hanno interpretato a teatro, anticipando sulla scena il massacro; e comunque, mentre la Ingmar Bergman Foundation fa notare il parallelo con un frame di Fanny e Alexander, noi sappiamo che di reference all’opera dello svedese la filmografia di Baumbach è tempestata - qui, all’epoca, ne facevo notare qualcuno -), a Woody Allen (tante, tantissime cose che non enumero, oltre a Wallace Shawn, Alan Alda e la stessa Johansson), a Mike Nichols o al Robert Benton di Kramer contro Kramer (Henry come Justin?), passando per il Danny di Shining nel mezzo di una tempesta coniugale. Ma senza nascondersi, anzi, forte dell’originalità della propria cifra, della complessità delle situazioni messe in campo, della misura della messa in scena, dalla finezza dei richiami e degli echi (Nicole canta You Could Drive a Person Crazy e Charlie Being Alive - sono entrambi brani tratti dal musical Company, che tratta di matrimonio - e sono a tutti gli effetti momenti da commedia musicale che celebrano la fine della tensione e anticipano la serena fine del film), del lavoro superbo con gli attori e di quella capacità sopraffina di dare importanza a un dettaglio (quel temperino, che spunta la prima volta quando Charlie parla al telefono con Nora - quasi un alludere al tirare fuori gli artigli - appare la seconda per ferire lo stesso Charlie - capito? -), a una frase, a un gesto o a uno sguardo. Quel far passare attraverso lo schermo ciò che non si riesce a dire, a farlo percepire forte e doloroso, eppure ancora inafferrabile.
[1] Baumbach presenta sequenze decisive come puramente interlocutorie. Un esempio è la passeggiata di Nicole tra il set e il camerino; in essa accadono un bel po’ di cose. Nell’ordine: si parla dell’invivibilità di New York, Nicole viene presentata a Carter (lo ritroveremo alla fine come suo nuovo compagno), si prende in considerazione la possibilità che la donna passi alla regia (cosa che accadrà) e soprattutto si fa luce su una dinamica professionale (che vuol dire anche matrimoniale: gli aspetti coincidono): «A teatro ho sempre voluto dirigere. Charlie diceva “La prossima volta”. Ma lo faceva sempre lui. Non c’è mai stata una prossima volta». È a quel punto che Nicole ottiene il gancio di Nora: Nora deve forzare lo schema di un’intesa bonaria sulla separazione già marchiata in partenza dalle decisioni di Charlie. Nora serve a spezzare proprio quella dinamica della “prossima volta”.