Drammatico, Sala

STONEWALL

TRAMA

Danny si trasferisce dall’Indiana a New York nel quartiere gay di Christopher Street: sarà coinvolto nella rivolta di Stonewall (27 giugno 1969), l’inizio del movimento LGBT per i diritti civili.

RECENSIONI

Anche Roland Emmerich gira il suo 'film politico'. Tra Sotto assedio e il prossimo Indipendence Day: Resurgence, il maggiore professionista del blockbuster di Hollywood firma 'un piccolo film sui moti di Stonewall' (ipse dixit), ricostruendo la genesi del movimento LGBT americano che nacque nel 1969 dalla rivolta nel club del titolo. Medio budget, niente star, effetti speciali 'abbastanza' contenuti. Il copione dello sceneggiatore/drammaturgo Jon Robin Baitz è il più classico dei racconti di formazione: giovane criptogay arriva a New York nel quartiere omosessuale di Christopher Street e scopre un nuovo mondo, sceglie gradualmente di farne parte, prende coscienza dei propri diritti e infine incrocia la Storia partecipando ai fatti di Stonewall. Danny viene da un contesto rurale scolpito con la scure, segnato dal contrasto elementare col padre coach omofobo, di rovescio amato dalla sorella liberal e - più sottotraccia - dalla madre: il suo arrivo nella gay street è l'introduzione dello sguardo esterno nella realtà sconosciuta, che dallo smarrimento passa alla vicinanza e raggiunge la partecipazione - con pochi mezzi toni. C'è nella sceneggiatura grande spazio alla preparazione dell’evento, la creazione dei presupposti della rivolta, con quasi 80 minuti dedicati alle dinamiche personali e al disegno dello scenario, fino all'ingresso nello Stonewall che compare a vicenda inoltrata. C'è l'affresco dell'universo omosessuale di fine Sessanta, fatto (anche) di povertà e prostituzione, giovani che vivono in comune per indigenza, difficoltà a costruire una coscienza di genere, scontri e scissioni di pensiero tra l'impegno politico, la protesta di strada e la scelta di una 'pacata' disperazione. C'è sempre Danny al centro, ennesima incarnazione del topos, che muovendosi su questa tela ci conduce nel racconto archetipico.

Allora ecco il punto: come affronta Emmerich il Grande Tema? Con indubbia partecipazione e una certa dose di noia. La consueta evidenza del regista gay di Stoccarda è presto applicata: nel raid iniziale la polizia picchia duramente i giovani, gli agenti sono crudeli e sboccati, la discriminazione aperta ed eccessiva. Da qui in poi, tutto ciò che di più sfacciato può avvenire puntualmente accade: e la regia non fa niente per nasconderlo anzi lo enfatizza, alla continua ricerca del pathos lampante (vedere, a titolo di esempio, la fellatio gay di Danny che viene interrotta da uno scherzo tra amici: tutto è volutamente sottolineato fino al 'colpo' finale, la scoperta dell'omosessualità). Come sempre, però, chiedere sottigliezza al regista di 2012 sarebbe sbagliato. Decisamente più rilevante è l'estetica che propone, a partire da Danny interpretato da Jeremy Irvine: egli è un Big Jim palese, il ragazzo di campagna come te lo aspetti, da intendersi unicamente come corpo, non a caso la sua natura di guscio viene più volte evidenziata dai vari comprimari. Ma attenzione: proprio dal corpo, dal diritto all'essenza, parte la rivolta. Per questo anche le altre figure sono luoghi comuni (l'amico innamorato, il trans, il seduttore e così via), ostentazione della forma che guarda al fotoromanzo e al manifesto pubblicitario (le riviste nella valigia di Danny) e che ironicamente espone la propria superficialità senza pudore, perfino con orgoglio. I buoni e i cattivi, i gay e gli etero, tutti sono come previsto: Emmerich resta in superficie ed è la superficie dei corpi, la pelle tumefatta dalle cariche che innesca la protesta. In questo mondo di plastica, di icone pubbliche e private (Judy Garland, John Wayne), l'amore del regista per la storia si concretizza nella forma appariscente, il suo atto politico è inscenarla attraverso lo spettacolo.

l problema resta, banalmente, nella riuscita del film: Emmerich è ovviamente/inevitabilmente fuori corda nel problematizzare le questioni, come la divisione tra l'ala pacifista e la protesta radicale, come ogni spunto 'troppo serio' previsto dalla sceneggiatura. Per il resto asseconda lo script, comprese semplificazioni e prolissità, svolge il compito senza brividi. E alla fine, a sorpresa, il regista delude proprio dove ci si aspetta di più: nella rivolta di Stonewall, sulla carta scena emmerichiana, risolta invece in una sequenza un po' confusa, poco eccessiva e visivamente non memorabile. Non c'è la felice sfacciataggine dello Shakespeare di Anonymous. Resta l'empatia di Emmerich, il sentimentalismo esangue quasi struggente, esattamente come la sua inadeguatezza ad affrontare un argomento vero.