TRAMA
Dopo la morte del padre, India Stoker si ritrova a vivere con la fragile madre e uno zio, appena arrivato in casa, di cui non aveva conoscenza. Nonostante nutra dei sospetti sul suo passato, la ragazza ne è fatalmente attratta.
RECENSIONI
L'autorialismo è una bella cosa, soprattutto per la critica, che su di esso ha costruito e perfezionato una retorica: filtro attraverso il quale l'opera viene letta, prospettiva privilegiata in vista di una sua collocazione, complesso di valori (frutto dell'intenzione - presunta o effettiva, generalmente attribuita - del cineasta) al quale il film in esame si rapporta per un confronto col resto della produzione, per una considerazione di coerenza, per la riprova dell'esistenza di una poetica (la famigerata). Eccetera. Nessun dito puntato, per carità, nella politique des auteurs siamo invischiati da decenni: ci piace, funziona, dà da mangiare a un sacco di gente. Soprattutto: è comoda. Vuoi mettere col maneggiare un film per quello che è? Vuoi mettere col giudicarlo nudo e crudo, spogliato dagli elementi extratestuali, in base alle sole marche oggettive? Al netto delle costanti del suo artefice? Quanto è più difficile parlare di un film diretto da un regista che non conosciamo rispetto a quello di un (eccolo) autore di cui abbiamo già visto altri lavori? La premessa per dire che di un simile approccio, per quanto consolidato, non si deve essere schiavi. Che Park Chan-wook sia un autore - per quelli che sulla base di questo schema generalmente operano (io, per esempio) - non credo vi sia alcun dubbio. Ma che in Stoker, il suo primo frutto hollywoodiano, si debba ricercare prima Park (inteso come opus nel quale collocarlo) e poi il film, mi pare procedere miope.
Si parte da una sceneggiatura dell'attore Wentworth Miller che circolava da tempo e che finalmente trova una produzione e un regista disposti a tradurla in film. Un regista coreano che si mette a servizio del copione (solido, non irresistibile), che ne trae il meglio e che non cade nell'errore di voler prevalere su di esso, evitando il tranello della presa di posizione che, il più delle volte, si risolve in ibridi indigesti in cui più o meno tutto puzza di compromesso. E allora ecco che si dà voce a un plot molto semplice che procede per rivelazioni in accumulo (che però consentono di rileggere gli eventi del passato prossimo in altra chiave: ad esempio, capiamo dopo che lo zio ha cercato da subito la complicità della nipote, chiedendole di portare il gelato nel freezer dove giaceva la governante; India, buttando le scatole all'interno del frigo con noncuranza, non si accorge del cadavere e non coglie lassist se non a posteriori).
Ed ecco una messinscena di nitore implacabile in cui il regista, conscio di ogni potenzialità del contesto (il nucleo familiare ferito, la villa-scenario alto borghese), non gioca semplicemente ad effettizzare, ma sfrutta ogni spunto in termini di atmosfera e suspense (le reiterazioni dei temi musicali di Mansell sono debito contrappunto) richiamando, in questa scelta, l'elemento hitchcockiano dello script (marcato; di più: smaccato) che quasi si volatilizza, sublimato comè nella struttura (L'ombra del dubbio, ovviamente, Il sospetto e sparse schegge che non elencherò e che danno il sapore senza risolversi in citazionismi).
Ecco un approccio visivo di suprema qualità: plongé e controplongé, pianisequenza millimetrici (il funeral party), mirabili echi visivi tra una sequenza e l'altra (i piani temporali dialogano sempre attraverso un'immagine o un suono), tutti in chiave prettamente narrativa.
Ed ecco i freudianismi enfatizzati e i feticci ostentati: la cintura è talmente leggibile da diventare sublime; le scarpe (la scena iniziale del funerale parla già del coming of age della protagonista, con quel confronto tra la scarpa bassa della figlia e quella col tacco della madre); l'infanzia problematica (India, come la Mina di Dracula, deve crescere e affermare la sua identità e Mia Wasikowska, irragionevolmente piccola/grande in una cucina di cui il grandangolo stravolge le dimensioni, è di nuovo Alice in Wonderland); l'erotismo soffocato: la tenuta vittoriana di India/Mina, le fantasie masturbatorie, ma sempre nell'ottica di una definizione dei personaggi (maschere cristallizzate in caratteri) e dei loro capovolgimenti di fronte. Intanto, nei rapporti di dominio che mutano, nelle logiche che si ribaltano, non si danno allo spettatore chiavi certe di decrittazione sulle strategie delle pedine in gioco.
Lavora molto sulle apparenze Park, crea aspettative e le delude, assecondando l'ondivago evolvere di un soggetto che riesce sempre a deviare un attimo prima di consolidare una certezza, che conduce il tema bramstokeriano (l'ombra del passato da cui non ci si libera, il rapporto vampiresco tra zio e nipote) su una linea tesa che poggia, hitchcockianamente, su sequenze clou: l'uccisione della vecchia zia nella cabina telefonica (incalzante montaggio alternato), il duetto al pianoforte (lo zio, fantasma onanistico), la violenta definizione della situazione familiare, nel prefinale.
Un film commerciale di alta fattura. Buttalo via.