
TRAMA
Alice, stimata professoressa di linguistica, inizia improvvisamente a dimenticare le parole a causa di una forma precoce di Alzheimer. La sua vita si trasforma in una terribile battaglia per cercare di rimanere legata alla persona che era una volta, circondata dall’affetto.
RECENSIONI
Quanti sono i film, specialmente americani, in cui una torreggiante performance centrale salva baracca e burattini e rende passabile o addirittura interessante un’opera altrimenti evitabile? Forse tanti. E Still Alice, ultimo film della coppia Richard Glatzer e Wash Westmoreland, è uno di questi. La perfomance di Julianne Moore (ottima seppur non sorprendente) è, come da previsione, un manuale tecnico della perfetta recitazione. Moore è impeccabile nel rendere con la massima precisione il graduale aggravarsi della malattia e le conseguenze del morbo su quotidianità, affetti, ambizioni. Ma soprattutto è convincente nel rendere senza eccessi né sbavature quello che forse rappresenta il più sconvolgente fra gli effetti dell’Alzheimer: il perdersi da se stessi. Nello specifico, poi, la vicenda non lesina accanimenti narrativi: la malata non è infatti una persona qualsiasi, bensì un’accademica di primo livello e una linguista di fama mondiale in cui il morbo si sviluppa in un rara forma presenile. Anche su questo versante la performance della Moore si mantiene misurata, rimanendo sempre puntualmente efficace senza sbandare in eccessi melodrammatici. Ed in questo, un certo merito va riconosciuto anche ai registi che mantengono asciutto il livello della narrazione, mirando a colpire lo spettatore per il dramma in sé, senza ricattarlo con l’arma sguainata della lacrima a tutti i costi.
Ciò che non convince appieno è un po’ tutto il resto, a partire dai personaggi di contorno. Alec Baldwin interpreta, con una certa intensità, il marito della Moore. Il suo personaggio è complesso, umano, lacerato da un conflitto esistenziale e morale: votarsi esclusivamente alla cura della moglie sempre più malata o seguire egoisticamente le proprie ambizioni, che lo porterebbero lontano da lei. L’umanità del personaggio genera interesse, se non proprio immedesimazione, da parte dello spettatore, ma la sensazione è che i registi non lo approfondiscano a sufficienza, troppo concentrati nella monumentalizzazione singolare del dramma Moore. Allo stesso modo, Kristen Stewart, rimane un archetipo di ‘figliol prodigo’ solo abbozzato (e bizzarramente simile, per caratteristiche del personaggio e perfino look, al ruolo che interpreta in Sils Maria – un altro risvolto metacinematografico del film di Assayas?). Ancora più evanescente la figura di una seconda figlia, che scopre di essere destinata alla stessa fine della madre; per non parlare di un figlio biondo e praticamente muto a cui non vengono concesse più di un paio di inquadrature di sbieco. Forse il problema maggiore di Still Alice, così concentrato nell’osservazione forsennata del suo personaggio principale, è proprio la mancata caratterizzazione del contesto entro cui questo si muove e involve. Così facendo il film manca fondamentalmente di complessità, fermandosi ad onesto ritratto di una figura singola.
