TRAMA
1984, 1988, 1998: tre momenti cruciali nella vita di Steve Jobs, eroe e simbolo della società dell’informazione.
RECENSIONI
Atto primo: Mitologia.
È materia per i sociologi raccapezzarsi su come sia potuto accadere che un dirigente d’azienda sia diventato non solo un idolo delle masse, ma più precisamente un simbolo di libertà, creatività, controcultura, progresso. Jobs era venerato da vivo ed è adorato da morto. Le occasioni di lancio dei prodotti Apple si sono trasformate in riti di una religione civile, tecnologica ma appassionata, attesi con trepidazione e seguiti con devozione. Aforismi e battute dell’uomo sono tramandati per ispirare le vite dei sopravvissuti. Eppure, alla fine dei conti, Steve Jobs vendeva computer e telefonini. Certamente si è trattato di un venditore straordinario, che ha contribuito a rivoluzionare le nostre abitudini. Ma non sembra una ragione sufficiente a spiegarne il mito: del resto nessuno tramanda il nome di chi ha inventato e commercializzato la lavatrice o la televisione. Un modo di vedere la faccenda è che questo alone mitico è esattamente lo scopo della sfrontata e formidabile strategia di marketing di Apple. Il mito, cioè, è proprio quello che è servito a vendere miliardi di costosissimi apparecchi elettronici. Il mito non nasce dal successo commerciale. Il mito è la strategia per il successo commerciale. Del resto, la Apple di Steve Jobs non ha inventato il computer, non ha inventato il tablet, non ha inventato il telefonino e neppure lo smartphone. Eppure le sue innovazioni hanno cambiato radicalmente interi settori dell’industria, sbaragliando i concorrenti e ridefinendo gli standard correnti. C’è qualcosa di impalpabile in questa rivoluzione. Certo, Apple ha introdotto dei touch screen che prima non funzionavano così bene; certo, sui vecchi smartphone il giochino più eccitante era Snake. Ma la somma di queste piccole e grandi novità non pare spiegare l’enormità del mito. Sorkin mette questa frase in bocca al suo Steve Jobs: “I musicisti suonano i loro strumenti. Io suono l’orchestra”. È una frase che Jobs sente da un direttore d’orchestra ed è un modo di catturare l’ideologia del personaggio. Il successo commerciale non è solamente una questione di soluzioni tecniche e pratiche. Principalmente, il successo commerciale è una questione di desiderio, di storie, di nostalgia, di miti. L’industria americana lo ha scoperto più di mezzo secolo fa e Steve Jobs ha portato quest’idea all’estremo, lavorando al servizio del desiderio del consumatore, più ancora che sulle sue singole esigenze. Questa mitologia del piacere cancella i confini tra vita privata e business, tra logistica e sentimenti: ci dimentichiamo che quell’uomo sta cercando di venderci degli aggeggi, e ci accorgiamo che invece sta aiutando a sublimare le nostre domande sull’identità, la realizzazione personale, la passione.
Non c’è forse miglior testimonial di Steve Jobs per l’ideologia contemporanea per cui il lavoro dev’essere lo strumento per la realizzazione di sé, l’espressione della propria interiorità, il soddisfacimento delle proprie aspirazioni. Non si tratta più di un modo per assicurarsi uno stipendio – che proposta arida e impoetica! – bensì di esprimere se stessi. Ciò che una volta riguardava poeti e artisti, e forse qualche prosatore più alienato, oggi è l’aspirazione di tutti: da chi organizza eventi promozionali per dentisti a chi spignatta nelle cucine di un ristorante, dagli avvocati agli agenti immobiliari, oggi il lavoro richiede la piena adesione spirituale. E poco male che di lavori spiritualmente significativi ve ne siano giusto una manciata in giro per il mondo – si può sempre ovviare acquistando desideri realizzati in forme stilose e perfette.
Atto secondo: Anatomia.
Aaron Sorkin si è trovato a dover pensare a un modo per penetrare la compattezza traslucida del mito e ha scelto il punto di vista più interessante, quello della parzialità e dell'incompletezza. I miti - come le orchestre, appunto - vivono nella loro interezza indivisibile: scomporli e sfilarli significa disperderne l'energia. Quell'angolo è quindi il più promettente per vedere qualcosa dietro il velo denso della mistificazione. Sorkin fa una mossa ancora più radicale: scarta l'idea di una rappresentazione biografica, e decide di mettere in scena uno studio scientifico di elementi psicologici e morali, come in un esperimento di chimica. La sceneggiatura di Steve Jobs non è - o, almeno, non lo è nella sua parte migliore - una storia, fedele o romanzata che sia. È piuttosto la riproduzione in laboratorio di pulsioni, reazioni, conflitti, vizi morali e virtù commerciali. Ci sono tre atti: 1984, il lancio del Macintosh, che porterà all'uscita di Jobs da Apple; 1988, il lancio del cubo nero di Next, nuova creatura di Jobs, pensata in realtà come strumento di vendetta e riconquista di Apple; 1998, il lancio dell'iMac, simbolo del ritorno di Jobs in Apple e inizio del processo trionfale che porterà Apple ad essere la società col maggior valore del mondo. C'è un numero limitato di personaggi: Jobs ovviamente (un ottimo Fassbender perfettamente al servizio dell'esperimento chimico, più che della riproduzione biografica che qui appunto non è cercata); Joanna Hoffmann, la sua più fidata consigliera e unica in grado di tenergli testa; l'amico, co-fondatore di Apple e antagonista spirituale Steve Wozniak; John Sculley, amministratore delegato di Apple e padre simbolico di Jobs; il tecnico Andy Hertzfeld; l'ex amante hippie e madre di sua figlia, Chrisann; e la figlia di Jobs e Chrisann, Lisa.
Sorkin non ci mostra le presentazioni dei prodotti, quelle celebrazioni che hanno infiammato l'immaginazione dei consumatori, ma solo i minuti prima del loro inizio. Sorkin incide il mito per scoperchiare il dietro-le-quinte, i conflitti, le dinamiche umane che animano il mito. Non si tratta però dello svelamento di una qualche verità biografica o giornalistica, ma della riproduzione controllata - secondo specifici protocolli teatrali, rigidi quanto quelli della ricerca scientifica - delle pulsioni psichiche e morali all'opera in questa storia. La struttura teatrale e artificiosa non è un vizio dello script, ma la sua intenzione più pura: ambiente artificiale, molecole caratteriali mescolate in condizioni diverse, ingredienti dosati nella quantità prescritta per poterne misurare le reazioni. I personaggi straparlano come macchinette elettroniche, come è d'uso con Sorkin e forse anche più del solito. Ma il punto è vedere l'effetto: l'esplosione degli elementi, le scariche elettriche, i conflitti, le risoluzioni.
Atto terzo: Campo di distorsione della realtà.
A un certo punto però arrivano i problemi. Alcuni temi scelti da Sorkin sembrano banali, e a volte vengono trattati maldestramente, o con eccessivo, disarmante didascalismo: come il garbuglio edipico con Sculley, spiattellato in modo eccessivo e senza raffinatezza; o la strisciante presunzione apodittica che, nonostante tutto e tutti, Jobs era ovviamente un genio. Diversi passaggi sono ripetitivi, e martellano e rimartellano la stessa faccenda senza nuove sfumature ma solo altri fiumi di parole esagitate, come per la faccenda dei ringraziamenti al team dell’Apple II. La delusione maggiore però arriva dal rapporto con Lisa. Sorkin decide che la misura più autentica dell’umanità di Jobs risiede in questo particolare filo della sua storia: una bambina prima inspiegabilmente rifiutata, poi maneggiata con la dimestichezza di un genitore extraterrestre, e infine accettata come figlia. Nel primo atto, Lisa è un mistero. La caparbia determinazione con cui Jobs nega di esserne il padre, nonostante il test di paternità l’avesse affermato con il 94% di precisione, è in grado di convincerci tutti, per un attimo, che deve avere ragione in lui in qualche modo: Jobs è un genio, dopotutto. Questo è il reality distortion field, il campo di distorsione della realtà, un termine inventato da uno dei membri del team Apple nel 1981 per descrivere la capacità di Steve Jobs di alterare la percezione e il senso delle proporzioni degli interlocutori, grazie al suo carisma. Poco importa, biograficamente, se davvero Steve Jobs ha detto quelle cose a Lisa e su Lisa prima del lancio del Mac nel 1984 (non lo ha fatto, dicono i biografi, non in quell’occasione). Quella scena però rende esattamente la potenza del reality distortion field, e potrebbe essere un ottimo case study su cosa si deve intendere per realismo nel cinema e in letteratura, e cosa invece per reportage. Poi Sorkin però cerca di sbrogliare i fili dell’esperimento, di conciliare e concludere, di far tornare i conti, di semplificare. Tutto alla fine s’incastra in modo troppo liscio e troppo banale, e l’ultimo atto è più un lieto fine stucchevole che un affondo chirurgico com’era stato quel primo incontro tra padre e figlia. Infine, la regia di Boyle a volte s’accorda bene con la frenesia dei dialoghi ma a volte sembra solo un riempitivo, un modo per intrattenere l’occhio dello spettatore sparigliando angolature e scene al solo fine di ravvivare la staticità dell’impianto: così la gente corre, svolta, svicola, entra ed esce dalle stanze, senza alcuna ragionevolezza, ma solo come un mezzuccio miserello per shakerare la rigidità scenica.
Alla fine resta l’impressione di un’operazione riuscita in parte, perlopiù gradevole, per metà audace e per metà a corto di idee, a tratti potente e infine frettolosamente banalotta. Ah, della vita di Steve Jobs – a chi dovesse importare – impariamo davvero poco.