
TRAMA
456 persone accettano di rischiare la vita in un misterioso gioco di sopravvivenza con un premio di 45,6 miliardi di won.
RECENSIONI
Miniserie in 9 parti scritta e diretta da Hwang Dong-hyuk, autore di 4 lungometraggi inediti in Italia.
Lo squid game, in Corea del Sud, è un gioco infantile popolare sin dagli anni Settanta.
L’autore ha dichiarato come fonti d’ispirazione i manga e anime giapponesi (si vede, da costumi e maschere), in particolar modo Battle Royale (evidente) e Liar Game (adattato in un serial televisivo proprio in Corea del Sud). Alla fine, però, il capostipite è sempre La pericolosa partita.
Il gioco più sorprendente, anche perché il primo, è ‘1,2,3 Stella!’, con bambola meccanica gigante e carneficina (al ralenti, sulle note di Fly me to the Moon)
La bellezza tenebrosa di Ho-yeon Jung
La proverbiale passione orientale per i giochi è trasformata in una sorta di esperimento sociologico che fa leva sull’avidità e l’ansia di riscatto degli ultimi
Forse è un ‘contro’ non voluto, ma la maggior parte dei partecipanti è insopportabile e la fine cruenta non suscita compassione: se i giocatori sono un microcosmo dell’umanità, la sensazione di disgusto a prescindere è assicurata. Dong-hyuk Hwang è ambiguo nel catalogare i suoi partecipanti: da un lato, nel quinto episodio, il “direttore dei giochi”, detto Frontman, esige dai sottoposti che tutti i giocatori abbiano pari opportunità, quelle che non hanno avuto nel mondo esterno. Se ne desume che Dong-hyuk Hwang li veda anche come vittime cui dare una seconda possibilità. Dall’altro, nel sesto episodio, è evidente quanto siano irredimibili figure come quella del consulente finanziario, che tradisce anche nel gioco la fiducia dei suoi “clienti” (e che, nella comunità da cui proviene, è la più rispettata) e quella del criminale.
La scenografia colorata/kitsch da kindergarten nelle sale per i giocatori, quella “tropicale” in cui i milionari mascherati osservano i giochi
Il protagonista Seong Gi-hun è respingente (ma, poi, c’è di peggio), soprattutto nel “mondo reale” e oltre le reali intenzioni dell’autore (che scrive il classico iter di redenzione). Anche le sezioni che lo dipingono come uno sprovveduto faticano a suscitare il sorriso. Che, alla fine, sia l’eroe della vicenda lascia alquanto perplessi
I cliché fra commedia (orientale), patemi e sentimentalismi (orientali), sopravvissuti annunciati (perché gli unici contestualizzati prima degli eccidi), caratterizzazioni archetipiche (per non dire da…bambini, appunto)
La falla logica nell’aver architettato il ‘sistema’ perfetto: nessuno (parenti, polizia, amici…) si chiede dove siano finite 456 persone (soprattutto se sono decedute e non torneranno più)
La lunga, noiosissima confessione del vecchio nell’episodio finale
L’attenzione è catturata ed è quasi impossibile smettere prima della fine ma di una seconda stagione (annunciata dall’ultimo episodio) si può fare tranquillamente a meno
