Blackjack, Miniserie, Netflix, Recensione, Thriller

SQUID GAME

Titolo OriginaleOjing-eo Geim
NazioneCorea del Sud
Anno Produzione2021
Genere
Durata9 parti
Sceneggiatura

TRAMA

456 persone accettano di rischiare la vita in un misterioso gioco di sopravvivenza con un premio di 45,6 miliardi di won.

RECENSIONI

Miniserie in 9 parti scritta e diretta da Hwang Dong-hyuk, autore di 4 lungometraggi inediti in Italia.

     Lo squid game, in Corea del Sud, è un gioco infantile popolare sin dagli anni Settanta.

         L’autore ha dichiarato come fonti d’ispirazione i manga e anime giapponesi (si vede, da costumi e maschere), in particolar modo Battle Royale (evidente) e Liar Game (adattato in un serial televisivo proprio in Corea del Sud). Alla fine, però, il capostipite è sempre La pericolosa partita.

Il gioco più sorprendente, anche perché il primo, è ‘1,2,3 Stella!’, con bambola meccanica gigante e carneficina (al ralenti, sulle note di Fly me to the Moon)

       

La bellezza tenebrosa di Ho-yeon Jung

      La proverbiale passione orientale per i giochi è trasformata in una sorta di esperimento sociologico che fa leva sull’avidità e l’ansia di riscatto degli ultimi

        Forse è un ‘contro’ non voluto, ma la maggior parte dei partecipanti è insopportabile e la fine cruenta non suscita compassione: se i giocatori sono un microcosmo dell’umanità, la sensazione di disgusto a prescindere è assicurata. Dong-hyuk Hwang è ambiguo nel catalogare i suoi partecipanti: da un lato, nel quinto episodio, il “direttore dei giochi”, detto Frontman, esige dai sottoposti che tutti i giocatori abbiano pari opportunità, quelle che non hanno avuto nel mondo esterno. Se ne desume che Dong-hyuk Hwang li veda anche come vittime cui dare una seconda possibilità. Dall’altro, nel sesto episodio, è evidente quanto siano irredimibili figure come quella del consulente finanziario, che tradisce anche nel gioco la fiducia dei suoi “clienti” (e che, nella comunità da cui proviene, è la più rispettata) e quella del criminale.

    La scenografia colorata/kitsch da kindergarten nelle sale per i giocatori, quella “tropicale” in cui i milionari mascherati osservano i giochi

Il protagonista Seong Gi-hun è respingente (ma, poi, c’è di peggio), soprattutto nel “mondo reale” e oltre le reali intenzioni dell’autore (che scrive il classico iter di redenzione). Anche le sezioni che lo dipingono come uno sprovveduto faticano a suscitare il sorriso. Che, alla fine, sia l’eroe della vicenda lascia alquanto perplessi

       I cliché fra commedia (orientale), patemi e sentimentalismi (orientali), sopravvissuti annunciati (perché gli unici contestualizzati prima degli eccidi), caratterizzazioni archetipiche (per non dire da…bambini, appunto)

       La falla logica nell’aver architettato il ‘sistema’ perfetto: nessuno (parenti, polizia, amici…) si chiede dove siano finite 456 persone (soprattutto se sono decedute e non torneranno più)

       La lunga, noiosissima confessione del vecchio nell’episodio finale

L’attenzione è catturata ed è quasi impossibile smettere prima della fine ma di una seconda stagione (annunciata dall’ultimo episodio) si può fare tranquillamente a meno