Drammatico, Sala

SPAGHETTI STORY

TRAMA

Valerio è un giovane attore senza lavoro, vive con la ragazza e si scontra con la sorella. Il suo migliore amico Scheggia è un pusher che gli propone un affare: ritirare una partita di droga cinese, un compito facile e ben pagato.

RECENSIONI

Premessa/disimpegno: sostengo aprioristicamente il film per il fatto di esserci, girato in 11 giorni con 15.000 euro (un “no budget” lo definisce il regista), di seguito lo darò per scontato.


L’indipendenza, come noto, è uno stato mentale. E se è vero che i registi indipendenti “dentro i film mettono sempre la loro vita sottoforma di allegoria o metafora” (Alexandre Rockwell), questo suona quanto mai lampante in Spaghetti Story: Valerio è un attore senza lavoro, ha recitato Macbeth e lo sperimentale, rifiuta il cliché dialettale, respinge la vendibilità obbligatoria. Nella sua figura non abita solo il regista, ma è alter ego dell’intero atto produttivo, del film stesso, voce contraria ai colossi che non si rassegna all’indigenza. Intorno a lui gravita una ragazza che vuole un figlio, frustrata dal dettato economico, una sorella cha ha sostituito la vita con la televisione, surrogando le relazioni con un programma di cucina; un amico pusher come scelta illegale, già compiuta e sottintesa per mancate prospettive, un “pasticcio” che coinvolge mafia cinese e prostitute. De Caro opera una distribuzione composita degli attributi fra i vari personaggi, per toccare molti aspetti dell’“Italia in crisi” 2013 ed esporre situazioni tipiche: tra slancio propositivo e paralisi oggettiva per lo spirito del tempo (non è colpa di Valerio se non si vende), il racconto si dipana nel disagio e nel vuoto contemporaneo nutrendosi di simboli cubitali (la morte della madre: l’assenza dei genitori) e sfiorando il noir, col pesce piccolo metropolitano invischiato nel mercato globale della droga cinese. Le possibili ascendenze stilistiche si “scetticizzano” a colpi di ironia, si scherza apertamente sui presunti segni post-pasoliniani dei personaggi: questo dichiararsi, il presentarsi onestamente per ciò che si è, rimarcando il pauperismo ad ogni livello (anche tecnico: è girato con una Canon 5D, un unico obiettivo 50 mm e “l’attrezzatura che poteva entrare nel bagagliaio di un’auto”, dal pressbook), dagli attori alle facilità della storia, rende l’umore indie una caratteristica interna al racconto, che lo permea sia dall’alto che dentro la struttura narrativa.


Mirabile l’inizio metalinguistico, che finge un thriller in medias res (un uomo si nasconde in un frigo per sfuggire a sicari immaginari) per poi uscire bruscamente dal copione “finto” ed entrare in quello “vero”, lo script di questo film: un gioco di genere che accenna un secondo livello riflessivo, ovvero l’intreccio non solo presuppone la complessità di realizzare una sceneggiatura oggi, ma ne è consapevole e ci ride sopra. La scrittura successiva non vale l’incipit teorico: il regista prosegue ripassando archetipi, con minime variazioni sul tema del cul-de-sac di una generazione, puntellando con allusioni piuttosto ovvie (l’industria corrompe, i giovani non si arrendono, amicizia e amore alla fine pagano e così via), un tentativo ricalcato dagli albori del genere (la ragazza da salvare, topos assoluto) e una fuga via mare, imbarco finale tanto conciliante quanto indigesto nella premura di chiudere (bene) la questione. E’ indubbio che Spaghetti Story segni un punto produttivo per il cinema a zero euro, quindi, ma altrettanto certo è che la sua drammaturgia si assimili gradualmente (e inconsapevolmente?) alla narrazione mainstream. Niente disturba davvero, il problema è annacquato dal sorriso, il dolore attenuato nello stereotipo. Successo per passaparola, dovuto forse (anche) alla scelta di non liberarsi dal canone rassicurante del racconto commerciale che resta di riferimento. Allora, alla fine, l’unico e spiazzante mostro è la nonna, emanazione di una visionarietà folle e senile che prefigura comparse di madonne e ritorni dei tedeschi.