TRAMA
Joe, direttore di una banda musicale delle scuole medie, sogna di suonare all’Half Note, un prestigioso locale di New York. Dopo 20 anni di tentativi, finalmente riesce a ottenere una serata. Tuttavia, un colpo di scena rovina i suoi piani.
RECENSIONI
CREDICI, MA 'UN TI CI FISSA'
Andrew Stanton e Pete Docter si confermano le punte di diamante della squadra Pixar, quelli che, in sostanza, hanno delineato prima (Finding Nemo, Wall-e) e perfezionato poi (Up, Inside Out, Soul) la caratteristica peculiare dei film della casa di produzione di Emeryville – ossia – il loro essere, sempre di più, e con sempre maggior decisione, opere di animazione per grandi e piccini. Si tratta, in maggiore o minor misura, di lavori ambiziosi, che deviano dal percorso di “cartone animato classico” per introdurre, spesso con coraggio, elementi emotivamente forti (Nemo è un portatore di handicap al quale, a inizio film, viene divorata la madre da un barracuda), ambientazioni adulte (il mondo desolato e post-apocalittico di Wall-e), tematiche delicate (la Ellie di Up che, dopo un aborto spontaneo, si scopre sterile, in un corto-nel-film di bellezza assoluta), epifanie semplici ma non scontate (l’importanza della Tristezza, vera protagonista di Inside Out), fino ad arrivare a Soul, che forse raggiunge lo zenit del coraggio. Il coraggio di Docter, stavolta, è duplice, perché riguarda non solo il – chiamiamolo non senza un pizzico di pudore – messaggio del film, ma soprattutto il percorso tortuoso e rivelatore che lo spettatore (bambino e adulto) è chiamato a percorrere.
Quella che si configura, inizialmente, come la-solita-storia-che-invita-a-inseguire-i-propri-sogni-e-le-proprie-passioni si trasforma, progressivamente, in qualcosa di più poetico e insieme disincantato tendente quasi al cinico: le passioni e i sogni non sono tutto e non meritano tutte le nostre attenzioni. Dalle mie parti, in cui il disincanto regna con leggerezza endemica, si dice: - credici ma ‘un ti ci fissa’ -. Si tratta di una piccola e, appunto, coraggiosa rivoluzione copernicana nel campo (non solo) dell’animazione, in cui è il film stesso a deludere volontariamente le aspettative spettatoriali, una delusione che può essere oltretutto distribuita su più livelli di lettura: il fruitore smaliziato vedrà disattese le sue aspettative critiche (il senso del film non è quello più prevedibile) mentre quello più ingenuo vivrà sulla propria pelle il cambio di prospettive.
Il coraggio e le ambizioni, come sempre, implicano dei rischi e Soul non fa eccezione: è un film forse troppo adulto per i bambini e non abbastanza adulto per gli adulti, ha alcuni passaggi un po’ macchinosi (tutta la procedura del tutoraggio, la parte delle anime perse/ossessionate), le derive poetiche lo sono troppo (Joe Gardner che suona “lo spartito della vita”) e non ha l’immediatezza e la spontaneità comica delle migliori occasioni Pixar, ma quello che offre in cambio è davvero tanto. Visivamente curatissimo, con belle parentesi purovisibiliste (che ricordano lo stile astratto di alcune sequenze di Inside Out), Soul ha anche una colonna sonora perfetta: lo score elettronico di Reznor e Ross ricorda gli episodi più pacati e ambientali (ma inquieti) dei Nine Inch Nails (da Something I Can Never Have del disco d’esordio fino agli ultimi Ghosts) mentre la parte jazz, curata dal bravo Jon Batiste, coniuga semplicità e profondità, riuscendo a restituire in pochi passaggi la bellezza del genere senza banalizzarlo.
LOST IN PIXEL
Un film Pixar è sempre un regalo perché abbina una tecnica all’avanguardia con la capacità di raccontare una storia. Un connubio fondamentale per la casa di produzione americana, a ogni nuovo film incline a sperimentare senza però dimenticare mai che dall’altra parte dello schermo c’è un pubblico. Dopo il grande successo di Inside Out, in cui l’astrazione evocata dalle emozioni prendeva forme concrete, Pete Docter torna a riflettere su ciò che non si vede sondando questa volta, con grande ambizione, il destino, la capacità di plasmarlo e la nascita della personalità. Il problema di fondo, che purtroppo accompagna poi lo svolgersi di tutto il film, è che le coordinate del racconto, molte e complicate, vengono abbastanza sbrigativamente accennate a inizio film e poi date per scontate, finendo per non essere mai del tutto metabolizzate. Si parla quindi di Altro-mondo, Ante-mondo, anime mentori, anime perdute, la “bolla”, scintille, distintivi da completare. Poi ci sono i personaggi che abitano questo universo, quindi i tanti Jerry, il contabile che deve fare quadrare i conti … ma quali conti? dei morti o delle anime in partenza?, e mentre pensi alla risposta il film ti trasporta altrove, a un altro quesito, perché arriva Spartivento che ti sforzi di capire che valenza narrativa abbia, ma mentre ci pensi siamo di nuovo a New York, insomma, che fatica! Anche perché tutto ciò non rimanda a un immaginario noto, ma con grande fantasia vengono create regole e codici nuovi a cui occorre rapidamente uniformarsi, perché il ritmo incalza. Il risultato è che si finisce sempre, o quasi, per essere un passo indietro rispetto a ciò che accade sullo schermo e lo scollamento impedisce di godersi appieno lo spettacolo, di entrare nelle dinamiche relazionali e di amare i personaggi, pedine di una filosofia e di geometrie le cui implicazioni spesso sfuggono, o non tornano del tutto. Se nelle opere precedenti si era quasi sempre riusciti a sviscerare la complessità in modo da renderla fruibile, con Soul l’operazione riesce purtroppo solo in parte. E non è questione di film adulto e poco trasversale, lo spaesamento coglie un po’ tutti, anzi, sono proprio gli adulti che finiscono per porsi più domande e rimanere spiazzati. Resta la magnificenza visiva, sempre più sorprendente, le raffinatezze sonore, la capacità di osare, tutti elementi da non dare per scontati, ma l’insieme non produce quel coinvolgimento, vogliamo chiamarlo magia?, in grado di allineare occhi, testa e cuore.
QUESTA È L'ACQUA
Una delle argomentazioni più diffuse - soprattutto a sfavore, ma talvolta anche a favore - riguardo al 23° lungometraggio Pixar Soul è che non sia "un film per bambini". Troviamo abbastanza ingrato l'assillo dell'adeguatezza al target infantile che circonda quasi ogni prodotto uscito dalla casa della lampadina, che se non si è mai risparmiata sul fronte del merchandise massiccio indirizzato a infanti muniti di letterina per Babbo Natale, ha anche sempre fornito - al fianco di personaggi coloratissimi, ipercinetici e facilmente trasformabili in peluche - chiavi di lettura stratificate e indirizzate a un pubblico adulto, sin dall'esordio con la struggente sinfonia sull'abbandono e la perdita dell'innocenza che è Toy Story, e in misura esponenziale con l'imporsi dell'attuale direttore creativo Pete Docter. Il regista che già 12 anni fa, all'altezza di Up, trattava in un film d'animazione temi difficilissimi e spesso tabù come l'aborto spontaneo e l'infertilità femminile; lo stesso che, con Inside Out, metteva in campo la psiche e il suo misterioso funzionamento. Da questo punto di vista, Soul mantiene il medesimo efficace doppio binario, con il ponderoso racconto di un bilancio esistenziale messo in scena, però, tramite una giocosa vicenda di scambio di corpi che coinvolge un uomo e un gatto (curiosamente chiamato Mr Mittens, ovvero Signor Muffole, nonostante un micio tricolore o calico sia nel 99% dei casi una femmina, salvo rare anomalie genetiche; forse la sua anziana padrona ha problemi di vista… ma stiamo divagando). Al di là della possibilità di fruirlo come l'avventura slapstick di un uomo intrappolato nel corpo di un micio, Soul ci pare non solo indicato, ma rivoluzionario per un pubblico giovane, come già era avvenuto per il succitato Inside Out; Docter porta avanti con coerenza una poetica di riscrittura dei cliché da narrativa per l'infanzia che disinnesca con grazia alcuni automatismi duri a morire. In Inside Outla svolta era rappresentata dal ruolo di Tristezza, che rivelandosi il personaggio chiave smontava la dittatura della felicità comune a larga parte dell'universo dell'animazione per famiglie, legittimando l'importanza di saper riconoscere, vivere, non soffocare le emozioni negative; in Soul qualcosa di simile avviene per un concetto abusato e fondante della narrativa per bambini, ovvero l'idea di essere speciale. Le anime in attesa nel Great Before raggiungono la Terra solo quando la loro "scheda personalità" viene completata (in modo non dissimile dal sistema di badge dei piccoli scout di Up; ci ritorneremo), e il falso mentore Joe fraintende il meccanismo ritenendo che l'elemento cruciale per essere anima "degna" sia un talento; una dote, un sesto senso, un'abilità, un guizzo di genio. Qualcosa di speciale, da inseguire per tutta la vita, che la renda poi degna di essere vissuta; e che si manifesta, come da consolidata tradizione cinematografica, in un epico momento di riscatto, possibilmente pubblico, che per Joe è rappresentato dall'esibizione nel jazz club dove accompagna al pianoforte una cantante leggendaria. Soul, giunto a quel punto, fa qualcosa di diverso: dove ci sarebbero i titoli di coda, subito dopo la suprema soddisfazione di aver dimostrato il proprio talento davanti a tutti - compresi quelli che non ci credevano, come è in parte il caso della madre di Joe -, il film va avanti, e mostra che non ha senso vivere per quel momento, per quella gloria, per la consacrazione del proprio essere speciali; non ha senso neppure l'ansia costante e motivante di volersi scoprire tali. Quanti film, animati o no, quanti libri, fumetti, canzoni ci raccontano del nostro essere speciali? Solitamente, nei prodotti per l'infanzia, si tratta di racconti mirati a demistificare le idee convenzionali di bellezza, abilità e conformismo; allora il protagonista non-bello, diversamente abile, reietto scoprirà di avere una qualità/talento/dono che lo rende comunque, in ogni caso speciale (capace cioè di essere qualcuno, come da retorica del Sogno americano). E vivrà, di conseguenza, momenti di assoluta e irripetibile unicità; e qui torniamo a Up, che metteva in scena l'ansia del protagonista di non aver mai esperito una vera avventura che rendesse la vita degna di essere vissuta, cruccio demistificato solo in chiusura dalla struggente dichiarazione della defunta moglie, che ricolloca al centro il loro vissuto, il loro quotidiano, senza necessità di esotiche, magiche avventure.
Invece, questo nutritissimo filone di racconti edificanti e motivazionali (spesso mossi da nobili obiettivi di inclusività e tolleranza) enfatizza costantemente l'idea dell'individuo come elemento eccezionale, dalle caratteristiche - popolari o anticonformiste che siano - uniche e inimitabili; come eroe di una propria narrativa, come piccolo centro del proprio universo, secondo un discorso di autoaffermazione le cui derive sono sotto gli occhi di tutti nella quotidianità del social network. Soul smantella con un colpo d'ala epocale questa narrazione, quando Joe realizza che non serve essere gloriosi, magici, unici nel proprio genere per essere degni e autentici: più che l'elogio delle piccole cose, o la poetica del fallimento, come è stato da più parti etichettato, ci pare allora che al cuore di Soul vi sia una legittimazione del diritto di essere una persona qualsiasi, un non-eroe, non-speciale, un generico, appagato nessuno/chiunque. Non è un caso, allora, che la sceneggiatura inserisca in un dialogo (fra Joe e la navigata cantante Dorothea) un riferimento esplicito al celebre discorso di David Foster Wallace a una classe di laureandi nel 2005, This Is Water, ovvero Questa è l'acqua: in quel famoso testo (poi a sua volta abusato e copincollato fino a confondersi con certe catene inneggianti a gentilezza e tolleranza) l'autore statunitense usava la medesima metafora del giovane pesce incapace di riconoscere il contesto in cui vive e si muove («che cos'è l’acqua?» si chiedeva nel testo di DFW; «questa è l'acqua, non l'oceano», si affligge in una variante il pesce della storiella di Soul) per raccontare di un mondo occidentale ottenebrato dal proprio agire in «modalità predefinita», ovvero la modalità in cui ciascun individuo si percepisce come misura unica del mondo circostante (e dunque vittima di ingiustizie, e dunque frustrato dal mancato riconoscimento del proprio valore, etc etc). Ecco allora che Soul scardina la modalità predefinita di Joe (e anche, specularmente, dell'anima "persa" 22) forzandolo letteralmente a non essere più al centro della sua narrazione (costretto nei panni di gatto, di spalla coatta), e gli permette di scoprire che non tutto deve essere a sua misura, che non è lui il centro dell'universo, né deve dimostrare di esserlo. Un discorso filosofico e psicologico di grande complessità si traduce, sul piano narrativo, in un passaggio che ci pare intuibile anche per un piccolo spettatore. Soul non è un film per bambini? Ci piacerebbe molto che ce ne fossero di più, di film per bambini così; ci piacerebbe che la nostra generazione avesse avuto un Soul, nell'infanzia.
FILOSOFIA DELLO SPIRITO E DEI SENSI BY PIXAR
Sin dal suo annuncio Soul si proponeva come una sorta di sequel spirituale di Inside Out, per cui, secondo lo stesso principio, due dimensioni si interfacciano, una tangibile, popolata da esseri umani, e una intangibile dove degli avatar intraprendono un viaggio di formazione il cui esito influenzerà irrimediabilmente l’altra realtà. Oltre a condividere il creatore e regista Pete Docter, entrambi i film godono di una straordinaria e immaginifica potenza visiva, speculare nella rappresentazione dei mondi immateriale. Se in Inside Out, il proprio Io interiore acquista fisicità, incarnandosi in spazi a noi conosciuti (i sogni si creano in un teatro di posa, i ricordi si perdono in una discarica, etc...), in Soul l’Ante-Mondo si sfuma in pure forme e vuoti, linee e punti, pur sottostando a leggi che riflettono una visione ed una concezione che ha poco di ultraterreno: le anime prima di nascere devono subire un preciso addestramento per acquisire la loro personalità e, una volta trapassate, devono proseguire verso l’Aldilà, “facendo tornare i conti”. A gestire questa realtà ci sono degli architetti, tutti di nome Jerry, e un contabile, Terry, androgini esseri mutaforma composti da una sola linea animata - ispirata a cubiste sculture di filo in perpetuo movimento - divertenti e divertiti nell’espletare, con grande senso di responsabilità, le loro funzioni, e ai quali solo il medium animato poteva dar vita. Tutto il mondo è una stilizzata fantasmagoria sinfonica debitrice della Fantasia disneyana (soprattutto dell’episodio “Toccata e Fuga in Re Minore”), come dimostra la sequenza della caduta dell’anima di Joe dal Limbo all’Ante-mondo, surreale ma non surrealista come quella di Alice verso il Paese delle Meraviglie, e accompagnata dalle eteree e rarefatte musiche di Trent Reznor e Atticus Ross.
La musica è indiscussa protagonista anche sulla Terra, insegnata a scuola da un insoddisfatto Joe, talentuoso pianista jazz in attesa dell’occasione della sua vita, che si perde spesso nella bolla dei suoi ispirati assoli - anche qui visivamente il richiamo alla “Toccata e Fuga in Re Minore” di Fantasia è evidentissimo - tra i quartieri black di una New York autunnale strabordante di particolari, resi nel dettaglio grazie al rendering fotorealistico tipico dei props e dei fondali Pixar. E Joe è il primo protagonista nero di un film Pixar, ma non di certo di un cartoon Disney: l’ ingiustamente sottovalutato e ben avanti rispetto ai tempi La Principessa e il Ranocchio aveva, più di dieci anni prima, già posto le basi per la necessaria rappresentazione della cultura afro-americana sullo schermo, e le somiglianze non si fermano qui. “Mamma, io non ho tempo per ballare, sai che ho ben altre priorità” cantava Tiana che lavorava giorno e notte pur di aprire il suo ristorante, mentre Joe, allo stesso modo, cerca di convincere una meno ben disposta madre che la propria realizzazione professionale come musicista è il solo motivo per rendere la sua vita degna d'essere vissuta. Torna anche il body swap che permette ai personaggi di osservare la propria vita secondo un’altra prospettiva, elemento, anche questo, comune ad altre pellicole Disney e Pixar (Koda Fratello Orso e Ribelle), che evidenzia le continue e vicendevoli influenze che i due studi si sono scambiati nel corso degli anni, soprattutto con Lasseter alla guida di entrambi. Consuetudine lasseteriana (e prima ancora disneyana) è quella di rendere le storie raccontate sempre più credibili grazie allo studio e all'osservazione del contesto dalle quali esse nascono. E Soul non fa eccezione; durante il suo sviluppo Pete Docter ha creato un cultural trust, un gruppo formato da consulenti e dipendenti della Pixar di origine afro-americana, che hanno contribuito alla fedele rappresentazione della black community e di tutti i suoi ambienti più emblematici quali jazz club e barber shop.
Eppure, per certi aspetti, Soul cerca di distaccarsi dalle consuete pratiche pixariane, tendendo più al discorso filosofico e intellettuale che alla ricerca del sentimento e della commozione, e questo a causa, prevalentemente, della scelta di una coppia di co-protagonisti che, nonostante la loro maturazione, rimangono sostanzialmente estranei l’un all’altro, in un rapporto intercambiabile di maestro/allievo (il film è dedicato ai mentor), che non si traduce mai in vera amicizia, novità per un film Disney, Pixar o d’animazione in generale. Joe è un’anima trapassata che non vuole morire, mentre numero 22 è un’anima non ancora nata e senza scopo che non vuole vivere; entrambi sono accecati dall’ostinazione che trasforma il sogno in ossessione e fagocita in forma di mostri di sabbia miyazakiani. Ancora una volta la Pixar rischia, diverge da terreni già battuti, offrendo stavolta personaggi che, seppur amabili, umanissimi e con i quali è facile trovare qualcosa in cui identificarsi, restano prevalentemente focalizzati su loro stessi, si alleano, loro malgrado, per motivazioni esclusivamente personali e vanno poco oltre ciò, tant’è che il sacrificio di Joe appare più che sentito, funzionale al messaggio lanciato, semplice eppure non convenzionale: un’ode alla gioia del vivere, in tutta la sua pienezza. Anche il finale, appagante e consolatorio (scelta sempre rifiutata dalla Pixar), è totalmente a supporto della tesi sostenuta, ma sorprende un po' per la facilità del suo scioglimento. Per certi aspetti Soul è l’opposto di Coco, simile per tematiche ma complementare per approccio e visione, più cerebrali che poetici, che ne fanno un’opera visionaria a metà tra un saggio e un’ esperienza sensoriale.
COCO & SOUL
Coco, dal nome affettuoso dell'anziana bisnonna che tende il filo della memoria fino al giovane Miguel nel Messico del Dia De Muertos, e Soul, genere musicale che non è il jazz, ma lo contiene, prestandosi al gioco di parole spirituale, in una New York attuale e fuori tempo che ha una sua immortalità nel cinema: nonostante la tematica comune, due lavori che non possono somigliarsi, né al di qua, né nell'aldilà. Sono pur sempre Messico e Stati Uniti, distanti e interlacciati, territori di confine e di muri; condividono vita e morte, ma il sentimento è differente. Non si può chiedere a un Soul il grado di empatia e di emotività che sprigiona da un Coco. Rappresentare il regno dei morti di un paese antichissimo che conserva i tratti della sua cultura nativa significa attingere a un bacino di simboli, suoni, colori, rituali già radicati e diffusi tra folklore e religione e svilupparne il contenuto emotivo. Rappresentare il romanticismo autunnale newyorkese tra il fascino della cultura black e la vocazione per la musica jazz in epoca (post?)trumpiana significa rifugiare nel cinema un mondo in crisi, proprio come il protagonista di che, "se morisse oggi" (come confida a sua madre e noi sappiamo che è effettivamente "morto oggi"), avrebbe concluso una parabola infelice con la caduta in un tombino. Fra la paura di vivere (di Ventidue) e la paura di non aver mai vissuto (di Joe), Soul non può essere un film accattivante, tenero e empatico perché è tutto figlio del suo tempo, di un Occidente che ha paura di essere perché non trova la propria identità, nonostante una galleria di "maestri ispiratori": cosa sono i mentori di Ventidue, che vanno da Copernico a Jung, da Orwell a Madre Teresa, da Maria Antonietta a Gandhi, se non un percorso fra politica, letteratura, psicologia, scienza e rivoluzioni che tuttavia non offre una via d'uscita dall'impasse, verso la Terra, verso se stessi, verso i propri simili? E tutto questo nonostante un apparato di efficientissimi Jerry, insieme all'ottima/o Terry, figure astratte che trasformano l'aldilà (che è il dopo, ma anche il prima) in un sistema aziendale il cui plausibile dio potrebbe essere un CEO superiore che tutto muove, nella raffigurazione contemporaneamente laica e mistica di un mondo Altro che va dall'arcaicità dell'abaco alla contemporaneità degli ologrammi, dalla semplicità della linea alla complessità del 3D. E, ancora una volta, si tratta di un gioco scopertamente metadiscorsivo da parte della major che si rispecchia nella propria opera, dichiarandone la natura attuale, sperimentale, ibrida e, per forza di cose, ironica e distante, sospesa. Vi navigano nel mezzo, vero ponte fra mondi, i salvifici frickettoni dei viaggi astrali, attualissimi e rétro, altre figure senza tempo, ai quali va un ringraziamento particolare.