TRAMA
Intorno al ristorante “Soul Kitchen” gravita un campionario di varia umanità impegnata a cavarsela nel dedalo di opportunità e inconvenienti della vita.
RECENSIONI
Sembrava impensabile che dopo la grevità del film che gli ha dato il successo internazionale (La sposa turca, Orso d’Oro a Berlino nel 2004) e il drammatico Ai confini del paradiso (Migliore Sceneggiatura a Cannes 2007), Fatih Akin, turco di origine ma tedesco d’azione, potesse anche fare ridere. Eppure la parentesi del 2006, con il documentario Crossing the Bridge – The Sound of Istanbul sul mondo musicale di Istanbul, doveva già indurre in sospetto sull’ampio raggio di azione di Akin. Sta di fatto che con Soul Kitchen cambia decisamente registro e costruisce una godibile e frizzante commedia. Ciò che colpisce non è tanto il soggetto, non particolarmente originale o sulla carta ricco di attrattive, quanto la forza delle caratterizzazioni, a tratti irresistibili, la pregnanza dei luoghi (siamo ad Amburgo in un quartiere periferico in via di sviluppo), l’energia e la varietà delle scelte musicali (reggae, soul, rock dal vivo, dance) e la bravura degli interpreti (dal protagonista Adam Bousdoukos, al più noto e ancora una volta carismatico Moritz Bleibtreu, fino al fantastico Birol Ünel, cuoco filosofo davvero impareggiabile). L’abilità di Akin è di orchestrare il tutto con grande leggerezza e ironia, non riducendo i momenti comici a mere gag ma inserendoli in una progressione narrativa che avvince e diverte. Poi forse eccede in alcuni momenti (il grottesco funerale della nonna della fidanzata del protagonista) e non si preoccupa troppo di rendere credibili alcune iperboli narrative (la festa che grazie al tocco del cuoco diventa un’orgia liberatoria, il cinico e cattivo ex-compagno di classe, il rimedio per l’assillante mal di schiena), però bisogna dargli atto di avere impostato una commedia ritmata, allegra, trascinante, forse un po’ furbetta ma molto personale e riuscita. Unica pecca il finale in punta di piedi che non aggiunge granché e arriva sbrigativo nella necessità di dover districare in pochi minuti i tanti fili intrecciati.

Assemblare un banchetto sontuoso con ingredienti da quattro soldi, creare un nutrimento per l’anima (e per l’occhio), vendere al cliente non quello che vuole, ma quello che ancora non sa di volere. E a caro prezzo. Fatih Akin è onesto, e un filo sprezzante, nell’affidare al pittoresco cuoco Shayn l’esposizione della filosofia alla base del suo film. Rimane da stabilire se l’obiettivo sia stato raggiunto. Soul Kitchen ricorda quei locali a tariffa fissa in cui l’importante è ingozzarsi come tacchini: c’è (di) tutto, non tutto è di ottima qualità, anzi quasi nulla, ma l’esposizione è allettante ed è facile farsi prendere la mano e assaggiare, per non dire divorare, troppe cose diverse. E il cuoco è esposto a questo rischio molto più del cliente. Conflitti familiari, sentimentali, sessuali, etici, etnici, sociali sfilano sotto i nostri occhi, serviti in salsa più o meno piccante e in porzioni robuste: l’estetica aiuta il palato (Akin sa come muovere la macchina da presa e lo dimostra anche troppo smaccatamente, ad esempio nella scena del party di congedo di Zinos e nell'improvvisa apparizione di Nadine all’aeroporto) ma alla fine l’impressione è di avere baciato, anzi trangugiato, la plastica. Non c’è un piatto dell’eclettico menù che non sia ampiamente prevedibile fin dal momento in cui si scorre la carta; il registro grottesco così greve e insistito finisce per triturare i personaggi e immiserire le situazioni (la presentazione di Shayn, il ritrattino del rampante, l’asta fallimentare); le marcate ellissi narrative non creano un ritmo indiavolato, bensì impediscono al racconto di crescere e discostarsi quindi almeno un poco dagli stereotipi che la sceneggiatura trascura di sviluppare. In bocca, alla fine, resta un sapore acido, una certa pesantezza e quel disgustoso senso di colpa che si prova dopo un’abbuffata di junk food. E questo malgrado la simpatia e l’inebriante entusiasmo del personale di cucina, capitanato da Adam Bousdoukos (anche cosceneggiatore, ahilui) e Moritz Bleibtreu e arricchito da presenze marginali del calibro di Udo Kier.

Cantore del meticciato in particolar modo turco-tedesco (con aperture ad altri innesti etnici e in una chiave ovviamente anche esistenziale), dopo le coordinate mélo (l’irruente e pregevole La sposa turca, l’irrisolto ma interessante Ai confini del paradiso) e l’escursione documentaristica nel melting pot musicale dell’odierna Istanbul (Crossing the Bridge) Fatih Akin tenta la quadratura del cerchio della commedia multietnica che modula l’estetica dell’ibrido in musica e in cucina. Quel che guadagna in ritmo (è la sua opera più compatta e fluida per come sa concatenare e mixare la struttura a sketch) perde in densità narrativa. Piatto assemblato con ingredienti di seconda scelta ma abilmente venduto come saggio di arte culinaria fusion, Soul Kitchen diverte come può divertire una festa Erasmus ad alto tasso alcolico, la sua simpatia è presupposta, evidente ed evidentemente epidermica (l’affiatato cast fa in questo senso un ottimo lavoro). Ma lascia anche più che perplessi per la sua furba e goliardica facilità prossima all’inconsistenza, per una drammaturgia che copre con l’accumulo farsesco l’assenza di un qualsiasi vero conflitto. Gustose, queste davvero, le notazioni d’ambiente (un Amburgo rilassatamente postpunk ed electro alle prese con la riconversione dei suoi dismessi spazi industriali), edificante e pulitissima la favoletta nella quale finisce per risolversi il plot (il villain è così improbabile e macchiettistico che non ci crede nessuno, neanche gli stessi personaggi; l’uso di una comicità prevalentemente corporale non lascia macchie), precotto l’edonismo che la frizzante e scaltra regia del dj-director Akin sparge a piene mani. Inspiegabile Premio speciale della Giuria alla Mostra del Cinema di Venezia 2009 che, considerato anche il sopravvalutato Leone d’Oro della stessa edizione e il premio all’“emergente” (?) Jasmine Trinca del ’68 di Placido, getta una luce ancor più grottesca sull’operato della giuria. I titoli di coda, coloratissimi, acidi e funky, quelli sì erano da premio. Peccato la distribuzione non abbia pensato di farlo uscire per Natale: sarebbe stato il perfetto cinepanettone d’essai, non così distante per dinamiche narrative e grossolanità “liberatorie” da quello istituzionale ma con l’alibi intellettuale della coolness multiculturale.

Il turco Fatih Akin vira la propria vena tragicomica in commedia pura ai limiti del goliardico come nel precedente Kurz und Schmerzlos, rende complice l’amico greco Adam Bousdoukos (protagonista e co-sceneggiatore, responsabile dello spirito ilare e triviale) e dona vita ad un’opera buffa deliziosa, saporita e variopinta dove, come lo chef interpretato da Birol Ünel insegna, i soliti ingredienti possono essere presentati con fantasia e diventare cibo per l’anima. Il cinema di Akin soffre sempre di una certa furbizia nel proporre scene e stilemi compiacenti ma, dandosi al “genere”, sortisce meglio gli effetti sperati e conferma di possedere una poetica originale, dove la multietnicità è il tratto distintivo, sia nello sguardo sulla natia Amburgo, crogiolo di razze, sia nelle influenze di sapori e odori che subisce il suo stile, da Hollywood a Kusturica, dall’autobiografismo (Akin dice di essersi ispirato alla sua gioventù) ai semi culturali lasciati da rocker, turchi, greci, tedeschi, ballerini, carcerati, ladri e abbienti. Vanno di pari passo il soundtrack, che spazia dal soul funky a canzonette desuete italiane, spagnole e tedesche, e l’apporto corale degli interpreti, molto variegato nei tipi. Al malcapitato protagonista ne capita una dietro l’altra ma è come se fosse protetto da un angelo: l’opera s’ammanta, quindi, di uno spirito gioioso, carico di quel ritmo e di quella voglia di ballare e trasgredire che possiedono i vent’anni, quando è giusto solo ciò che è alternativo, underground, outsider e si ha la certezza che il Destino ripaghi i sogni perseguiti con tenacia. La cucina dell’anima di doorsiana memoria delizia il palato proprio quando è affollata di giovani artisti, ladruncoli e persone che non hanno accettato compromessi.
