Drammatico

SOFFOCARE

Titolo OriginaleChoke
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2008
Durata92'
Sceneggiatura
Tratto dadal romanzo di Chuck Palahniuk
Fotografia
Montaggio

TRAMA

Vincent è sesso-dipendente, lavora in costume in un parco a tema e fa i soldi fingendo di soffocare e speculando sulle debolezze dei suoi soccorritori. Forse, però, è Gesù._x000D_

RECENSIONI

Preso nella sua serialità, Palahniuk assomiglia a Baricco: i personaggi si risolvono tutti in vezzi bizzarri che muovono tutta l’azione. Li divide, forse, il dolore: la simpatia per i freaks del primo è sempre vigile e lucida; non ci fidiamo di loro; sappiamo che il danno che si portano dentro è guasto e irreparabile. E il brio che dà sapore allo stile dei due autori risente di questa diversa cognizione del dolore: nella comune empatia per le loro creature e loro azzardate stranezze, Palahniuk sottrae e acuisce; Baricco arrotonda e ottunde. Entrambi, una volta che si è capito il gioco, stuccano. Un adattamento che voglia andar dritto al sodo dovrebbe aggirare il pericolo primo della maniera indie: l’eccessiva indulgenza (verso se stessi, il proprio stile, i propri mezzi, il proprio mondo, i propri personaggi, l’ammiccante e smidollata edulcorazione di una sbiadita controffensiva culturale). Choke di Clark Gregg, invece, ci finisce dentro per almeno due terzi e quindi fallisce. Le stramberie principali ci sono, ma si smorzano o si tacciono le cose più estreme; tutti sono troppo simpatici; le meschinità sbiadiscono (e il dolore è poco guasto); e alla fine non si ride neppure troppo. Il film di Gregg è esemplare: gli arrotondamenti puerili della commedia indie sono una disfatta ed è tempo di smetterla. In un’intervista a IndieWire, Gregg dice di aver tratto ispirazione da Eternal Sunshine of the Spotless Mind e Secretary. Studiasse meglio.

La messa in immagini di Palahniuk si compie all’insegna dell’addolcimento. I nodi più ruvidi dello scritto vengono (quasi) completamente appianati nel girato. L’attore Clark Gregg cambia tono: il romanzo-puzzle drammatico e sarcastico, che sottolineava una dose di disperazione riposta dietro la ghignante superficie, diventa commedia amara dove il sostantivo conta più dell’aggettivo [1]. Una virata sottile, ma comunque costitutiva, che non deraglia dall’originale - nessuna libera ispirazione, siamo nella trasposizione pura – e affronta il trasloco pellicolare con una rosa di risposte peculiari, da cui inevitabilmente dipende l’esito del progetto. Solo un accenno al grappolo di temi che, nel romanzo, si accoppiano a più riprese, lasciandosi e ritrovandosi, alcuni più maturi, altri risucchiati tra le pagine; Soffocare resta, e con esso la figura di Palahniuk, opera assolutamente controversa: da un’idea fulminante a uno svolgimento pretestuoso, da un approccio concettuale a un ripiegamento sulla trama, sbilanciato e diseguale, dato che nel libro la prima parte polverizza la seconda. Nella presente operazione, dunque, occorre piuttosto focalizzare sulla resa visiva dello scritto: Gregg affianca alla scatenata voce off [2] gli striptease mentali del protagonista, segnando il passo della patologia. Nelle sequenze in soggettiva Victor proietta ogni donna in stato di nudità, la sessuomania clinica lo porta a sfilare vestiti invitanti come abiti claustrali: non rileva l’estetica ma l’attrazione è sempre automatica, l’atto della spoliazione serve solo per sfogare la propria fisima. Questo il maggiore azzardo e insieme l’unico: il soffocamento simulato, servito dall’attesa camera a mano, viene declinato con scelta corretta quanto ovvia; al resto non si applicano ulteriori elaborazioni visive, fermandosi a punte estemporanee o ordinarie riprese di confusione. Paura di intaccare un cult? Nella semi-rilettura del plot, di conseguenza, prima si perdono i sottintesi dello scrittore, il vero nocciolo della questione del libro - su tutti l’equivoco cristologico del protagonista, scolpito a martellate e risolto nebbiosamente -, poi se ne tradisce la tendenza alla stratificazione: il bacio finale tra disturbati, con un’ironia immediata da leggersi tutta al primo livello, è degno suggello per regista e produttore, consegnando un altro caso di cinema indie che paga pegno di vendibilità ricomponendo uno scenario mai davvero problematico. Soffocare è una commediola dell’alterità, ferita superficiale che urla e sanguina in un solo caso, il tormentato rapporto madre/figlio: questo fa saltare il banco narrativo attraverso un uso “squarciavelo” del flashback (l’infanzia è un fantasma che ci rincorre) e sfuma i contorni reali nell’enigma Ida Mancini (Anjelica Huston, un cast a sé stante): chi è Victor? dove la verità? La voce della donna, che soffia sul fuoco dello storytelling, propone la stessa sospensione dell’etica genitoriale vista in Ingannevole è il cuore più di ogni altra cosa: Ida e Sarah entrambe fuorilegge, entrambe sbandate con figlio a seguito, e intanto il cordone deviato aumenta questo legame paradossale, imprime i marchi caratteriali e già prepara i disturbi di domani. Nella “famiglia-freak” dell’immaginario contemporaneo sbocciano gesti di emulazione/disperazione/ribellione: travestirsi da bambina e soffocare non sono che fughe ad elastico dalle amate-odiate grinfie materne.

[1] L’impeto autoerotico di Denny davanti alle foto di famiglia di Victor ci porta dritti nell’horny teen movie, solo un po’ cresciuto; la ripresa del pianto di Victor è una scena madre (anche etimologica) che ci sfiora appena casualmente: la dimestichezza con un tipo di registro, e l’evidente impaccio con l’altro, suona come prova che a Gregg interessa la “commedia”, renderla “amara” molto meno. 

è2] In ogni tempo e luogo continua a essere il mezzo più comodo per la traduzione libro/film della tecnica del monologo interiore: quello delirante del protagonista è riportato quasi alla lettera, soprattutto nei meeting per sessodipendenti.

Chuck Palahniuk rimane autore di un solo romanzo (Fight Club: lo contiene tutto - e al suo meglio -), forse due (Survivor), limitandosi, nella restante sua discontinua produzione, a gingillarsi con le affettazioni e le malie di un linguaggio che è sempre stata la forza dei suoi testi e, allorquando l’ispirazione latitava, il suo evidente limite, facendo su di esso eccessivo affidamento (il punto più basso: Ninna nanna). Soffocare rientra nella sua paludosa stagione di mezzo: in evidente affanno e raschiando il fondo di un barile narrativo oramai allo stremo, da un lato; ancora a fidare sulla sostanziale tenuta del suo procedere letterario in formule e slogan accattivanti, dall’altro. Il film di Gregg, messa necessariamente da parte la pirotecnia del bagaglio espressivo dell’autore del romanzo, si concentra tutto sulla storia, mettendo in evidenza della novella, soffocata dall’ingombrante dispiegarsi dell’armamentario manieristico di uno stile personale sì, ma non necessariamente funzionale, il ribollente nucleo tematico centrale: quello di una modernità segnata dall’apocalissi genitoriale, la sessualità allo sbando, le convulsioni agoniche della società dei consumi, il delirio del nostro tempo reso attraverso quella che David Foster Wallace - col consueto, definitivo acume - aveva individuato come costante di tutta la narrativa realistica contemporanea: rendere strano ciò che è familiare.
Clark Gregg, regista orfano di uno sguardo personale, riesce, proprio in forza di questo suo limite, ricorrendo a una messa in scena ordinaria e sottotono, che osa pochissimo e niente azzarda, tutta governata dalla necessità del sostanziale rispetto, se non delle situazioni, dei precetti del romanzo, a mettere in risalto l’essenza contenutistica del testo, a farla respirare e, liberandola delle raffinatezze tecniche nelle quali era pesantemente avvolta, a far emergere la forza nascosta del processo di reinvenzione della normalità che l’autore attua.
Non sarà dunque un gran film questo Soffocare, ma è una trasposizione interessante che, a mio avviso, rende un discreto servizio a un libro altrimenti dimenticabile.