TRAMA
Dopo aver assistito a un traumatico episodio che ha coinvolto una sua paziente, la dottoressa Rose Cotter viene perseguitata da strani e spaventosi fenomeni. Assalita dal terrore che prende il sopravvento sulla sua vita, Rose sarà costretta a confrontarsi con il suo passato per sopravvivere e sfuggire ad una nuova e agghiacciante realtà.
RECENSIONI
E fu così che, proprio mentre gli occhi di critica e pubblico erano rivolti verso l'alto come in Nope, proprio mentre le attenzioni sembravano monopolizzate da questo nuovo tentativo di nobilitare l'horror, di acchiappare anche il pubblico più snob e schizzinoso battendo con insistenza la strada dell'iper-autorialità a tutti i costi; proprio mentre si celebravano i vari Jordan Peele, Ari Aster, Robert Eggers, Ti West e compagnia bella (un insieme di comodo naturalmente, che racchiude nomi cruciali per il cinema contemporaneo, possibili meteore e apparenti bluff: ma non è questo il punto); proprio mentre si ragionava su tutto questo e molto di più, ecco che accadde l'inaspettato. Il vero fenomeno dell'anno all'interno del genere, un po' a sorpresa, finì per diventare un film pieno zeppo di jump scares, diretto da un regista esordiente e sconosciuto e peraltro prodotto da una major come la Paramount, mica da quella miniera d'oro di stampo mestierante targata Blumhouse, mica dall'autorialismo spinto della A24. Certo si fa presto a dire "horror dell'anno", oggi che definizioni di questo tipo si sprecano e si moltiplicano su pagine e profili di tutti i tipi. Qui se non altro abbiamo un dato oggettivo: con i suoi 216 milioni di dollari, Smile è l'horror con il maggior incasso del 2022. E va bene l'importante campagna promozionale, va bene il trailer particolarmente riuscito, va bene una (geniale) trovata di marketing virale durante una partita della Major League di Baseball; ma lasceremo volentieri ad altri contesti lo studio meramente economico sull'efficacia di tali elementi.
Perché Smile, a guardarlo bene, mi sembra anche e soprattutto un film che prova apertamente a raccogliere i cocci di questo presente post apocalittico, ripescando il modello narrativo della catena di Sant'Antonio canonizzato da The Ring e ripreso più di recente da It Follows per mettere finalmente in scena un discorso sulla persistenza del trauma individuale e sulla sua risonanza nella collettività, su un orrore della mente, sempre invisibile agli altri se non nelle sue ultime conseguenze. Un orrore che, manco a dirlo, si diffonde come un virus (Alien-o: lo xenomorfo viene evocato più volte, con le bocche a matrioska del demone materno, con l'allucinazione che coinvolge la psichiatra di Rose, sorriso bavoso che pare rimandare vagamente a quella celebre immagine di Alien³), di occhio in occhio, di sguardo in sguardo, fino ad arrivare al sorriso inquietante del titolo, manifestazione ultima della disperazione che precede la violenza - (sor)ridere di fronte all'orrore, altra pratica collettiva estremamente contemporanea, esacerbata da emoji e reactions d'ogni tipo - e immagine precursore della propagazione del trauma. E non è certo un demerito il fatto che tale discorso sia cosi palese, marcato e inequivocabile, non in un film in cui l'ovvio vasto pubblico di riferimento da un punto di vista meramente economico coincide idealmente con quello tematico: la catena non deve spezzarsi, nessuna sottigliezza possibile.
Forse è anche per questo che Parker Finn pare tendere verso un ideale punto d'incontro tra raffinatezza formale e soluzioni più immediate. In Smile infatti riescono a convivere un gran lavoro di costruzione e significato degli ambienti (il ritorno costante del rosa confetto delle pareti del reparto psichiatrico, quasi a imprigionare beffardamente la mente della protagonista - il cui nome guarda caso è proprio Rose - in quell'infanzia interrotta dalla visione del trauma), con una ricerca della paura che pare dichiaratamente far leva sull'immediatezza del linguaggio della rete e che disegna una linea che parte dalle vecchie storie creepypasta per arrivare ai sorrisoni di Jonathan Galindo e Momo, passando naturalmente per l'utilizzo di jump scares che spesso ricalcano a loro volta altre famosissime catene di Sant'Antonio e scherzi particolarmente in voga nel web un paio di decenni fa (lo spavento costruito nella sequenza in cui Rose ascolta i file audio dal computer pare quasi una dichiarazione di intenti, tanto ricalca pedissequamente quelle dinamiche).
Difficile non credere ad una costruzione di tale consapevolezza, certo qua e là un po' grossolana nel lavoro sul disorientamento spaziale allucinato della protagonista, ma allo stesso tempo piuttosto matura nell'amalgamare in modo naturale "alto" e "basso", cinema e internet, la paura istantanea e superficiale del jump scare e quella più profonda e radicata che fa inaspettatamente capolino nell'incendiario finale, quando l'isolamento volontario e il ritorno al luogo e al trauma dell'infanzia portano con sé l'inevitabile confronto con la materializzazione (materna e mostruosa) del proprio trauma. Fin troppo facile invece, limitarsi a discutere e sentenziare sul numero di spaventi a buon mercato, non provando neppure a credere ad un'opera che, nonostante i suoi limiti, sa dialogare con l'immediato presente in modo forse meno banale di quanto sembri, azzardando e abbozzando perfino riflessioni sul ruolo dello sguardo nella propagazione del dolore. Un'ambizione teorica mica da poco, per un film che schiva virtuosismi e vezzi autoriali d'ogni sorta.
Confessione a margine, squisitamente personale e sincera, che scelgo volutamente di non sottovalutare: mi ha fatto paura.