Drammatico, Recensione

SLIPSTREAM

Titolo OriginaleSlipstream
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2007
Durata96'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Sottile è la linea che separa la realtà dal mondo fittizio che lo sceneggiatore Felix Bonhoeffer sta creando per il film al quale lavora.

RECENSIONI

Il film, il making of del film e la proiezione onirica di entrambi nella quale i due livelli si confondono: in Slipstream alla dicotomia Realtà-Sogno si avviluppa quella Verità-Finzione, con conseguenti cambi di ruoli e di identità dei caratteri. Non è nuova la strada battuta da Hopkins in questo lavoro per altri versi (e tenendo conto del suo artefice) sorprendente: elementi reali si ritrovano, proiettati e distorti, in un'altra dimensione, quella del subcosciente, esaltati dall'impellente pulsione creativa, e decrittati nel finale, ricomposti in un quadro possibilmente plausibile [1]; tutto è stato manipolato e ricreato come allucinazione dalla mente dello sceneggiatore protagonista, in un terreno che sembra confinare con quello di Providence (nel film di Resnais il demiurgo Gieguld manovra le creature del romanzo che sta scrivendo, tratte dalla sua esperienza personale e assurte a ruoli di fantasia, comodamente, perversamente condizionate) e di Mulholland Drive (in cui la prima parte si rivelava traduzione in trip post-mortem di una precisa realtà, mostrata nella seconda) con cui questo film condivide evidentemente la considerazione ombelicale del Cinema come fabbrica di sogni, fucina di illusioni, perversa macchina a scrivere. A Lynch rimandano anche la struttura a caselle (con personaggi che appaiono in microepisodi quasi-conclusi che non si raccordano tra loro, ma sembrano riconnettersi a un disegno più ampio), lo sfasamento percettivo, moltissimi luoghi fisici e mentali. I livelli a tratti si distanziano, a tratti slittano l'uno nell'altro, lo sceneggiatore non riesce a dominare il suo Es (alla fine - se quella è la fine - sapremo perché), ci vive dentro con tutte le sue creature, pronte a scannarsi per una battuta e a essere scannate dall'impietosa accetta di qualche produttore ignorante e traffichino; in esso tutto si mescola: la Memoria (che tritura ricordi personali, icone universali, avvenimenti e personaggi epocali) e il Tempo (in un continuo vero/falso flashback/flashforward), in un pasticcio mentale spesso incoerente (informazioni e immagini che si contraddicono rispecchiano la confusione di chi le sta pensando) ma sempre testimone di un malessere concreto, percepibile che si muove tra suggestioni che la psiche sembra scegliere e abitare arbitrariamente. Come sempre (/come il cinema) il sogno alla fine mente. E si autodimostra. A ben vedere proprio quelli che facilmente diremmo difetti, ovvero la sovrabbondanza di effetti (montaggio sincopato, inserti in bianco e nero, solarizzazioni, il fermo immagine inveterato, viraggi vari usati con inverecondia sbarazzina) e l'esibita ridondanza dei livelli, finiscono per affermarsi come ingenua e perciò ruspante cifra di un lavoro che, nonostante la stratificata tessitura, fugge intellettualismi e contorsionismi teorici ostentando fin dall'inizio la sua marca onirico-psicogena, sottolineandola, gridandola persino. In questo senso Slipstream è tutto fuorché ambiguo: in esso il mascheramento della realtà e/o della rappresentazione è sempre ovviamente possibile. Hopkins, che nasce attore teatrale, rivendica il suo essere organico alla Settima Arte nella quale è stato sempre percepito come un ospite d'onore: lo fa con le citazioni continue ad Hollywood, alle sue maschere divistiche, ai fuochi fatui delle stelle-per-un-giorno, ai generi (il noir, il western, la commedia, la fantascienza); lo fa in un onanistico guardare ad una carriera, la sua, segnata da una galleria di personaggi-chiave (Nixon, Titus, Hannibal), fosse pure solo per il semplice gusto di autocitarsi (o citare i registi con i quali ha lavorato); lo fa denunciando una bipolarità che è metaforicamente mentale, ma di fatto attoriale ed esistenziale (l'Arte - il Quattrino): Slipstream diviene, in un certo senso, la sua intima apoteosi, il suo accorato songbymyself; la compiaciuta autocelebrazione delle proprie potenzialità (l'attore firma persino le musiche, tanto per dirne una). Eccessivo? Certo. Sovraccarico? Nessun dubbio, ma nella suprema volontà di non porsi limiti, di non risparmiarsi, di sbracare alla grande, il film appare sincero e generoso: se amarlo è difficile, impossibile è peraltro detestarlo o dargli addosso.