TRAMA
Assecondando una traccia onirica della figlia adottiva Sharon, Rose decide di portarla con sé, all’insaputa del marito, in un viaggio a Silent Hill, città che ricorre spesso negli episodi di sonnambulismo della bambina.
RECENSIONI
Tralasciando la derivazione videoludica, la sceneggiatura vagamente autoironica di Roger Avary e l'ammorbante componente familiare (la discesa agli inferi come banco di prova della maternità adottiva), è possibile considerare Silent Hill dal punto di vista squisitamente cinematografico, ché, a differenza di altri horror in circolazione come il ritardatario La spina del diavolo e il commestibile Shutter, il film di Cristophe Gans si distingue per una cura visiva e un'attenzione allo sguardo decisamente inusuali. Occorre subito dire che la pellicola è nettamente divisa in due parti (non cronologiche ma spaziali): quella ambientata nella città apparentemente deserta e quella, molto più breve, situata in tutti gli altri luoghi. La distinzione non è soltanto geografica, ma soprattutto estetica: se le sequenze girate fuori Silent Hill, fatta eccezione per il tragitto che vi conduce, risultano complessivamente sciatte e pedestri, quelle girate nella città, al contrario, sono straordinariamente elaborate e suggestive. Il contrasto è così plateale da far addirittura pensare a due mani diverse: il regista della seconda unità è il fido William Gereghty, già Second Unit Director per Crying Freeman e Il patto dei lupi. Mettiamo dunque da parte, insieme al resto, la parte extraurbana e concentriamoci invece su quella ambientata in città: qui Gans, spalleggiato dalla fotografia terrea di Dan Laustsen, conferisce allo sguardo le stesse proprietà metamorfiche possedute dagli edifici. Come la città, desquamandosi, trasfigura in pandemonio, così la mdp, al calar delle tenebre (reali e mentali), si carica di un'energia tellurica e crepitante che la trascina in movimenti sinuosi e serpeggianti, in volute accerchianti, in avvolgenti spirali ottiche. È lo stesso sguardo, in altri termini, ad assorbire e trasmettere la diabolicità di Silent Hill, potenziando sensibilmente le atmosfere sulfuree della città e rendendo la ricerca di Rose (una credibile Radha Mitchell) una vera e propria descensio ad inferos dagli insospettabili risvolti salvifici. In questo senso appaiono prodigiosamente integrati nel tessuto filmico gli effetti digitali e le numerose iperboli visive: su tutte la pioggia di cenere, il gigantesco Piramide Testa e la favolosa sequenza finale, spinosamente gore. Buone le prove attoriali femminili (non sono pervenute quelle maschili) di Laurie Holden nei panni della poliziotta irriducibile e della quasi irriconoscibile Deborah Kara Unger in quelli della reietta Dahlia. Ma l'interpretazione di Alice Krige nella parte di Christabella è semplicemente su un altro pianeta: nei suoi occhi lampeggia la spiritata malvagità della Mercedes McCambridge di Johnny Guitar (accostamento molto meno azzardato di quanto sembri). Ancora una volta, insomma, l'horror si rivela luogo privilegiato per la riflessione sul linguaggio cinematografico e sulla storia del cinema. A chi lamenta incongruenze narrative, incoerenze cronologiche o lacune strutturali (i vieti 'buchi di sceneggiatura') rammentiamo una piccola, terribile verità: il cinema è arte (mi si perdoni l'uso di questo fastidiosissimo termine) della visione.
E’ sicuramente vero che, visivamente parlando, Silent Hill ha i suoi momenti. La prima “calata delle tenebre”, per dire, è davvero efficacissima e l’orda di “bambini bozzolo” fa genuinamente orrore. E non si tratta di un caso isolato: tutto il film è disseminato di sequenze girate benissimo e fotografate meglio. Per questo aspetto della questione, insomma, mi sento di sottoscrivere le belle parole di Alessandro, che precedono le mie. Mi permetto invece di aprire una parentesi dissenziente sulla questione sceneggiatura. Se è infatti vero che talune espressioni suonano tanto fruste da risultare insopportabili (“sceneggiatura lacunosa” et similia), è altrettanto innegabile che a livello di scrittura Silent Hill palesi tante di quelle incongruenze, lacune, buchi e forzature che tacerne, anche se in nome della ragghiantiana, ontologica “visionarietà” del cinema, diventa davvero difficile. Non foss’altro perché il film di Gans se l’è letteralmente cercata. Il cinema visionario (altra definizione mica da ridere, in termini di “vietezza”), e SH nei suoi momenti migliori rientra senz’altro con piena dignità nella categoria, non ha bisogno di troppe parole e men che meno di spiegazioni. Anzi. Sono affatto convinto che il film in questione, una volta entrato nel tunnel della solita vendetta del solito (quasi) “fantasma”, con annessa setta di fanatici religiosi, ne esca con le ossa rotta e col fascino irrimediabilmente compromesso, proprio perché Silent Hill al suo meglio è “arte della visione” e non horrorucolo delle stronzatelle campate in aria che mandano a far funghi coerenza e coesione interne. Confesso, in calce e poco convinto, una tentazione assolutoria legata alla figura di Roger Avary e al suo essere troppo furbo per aver scritto delle vaccate del genere: lo script non va, forse, preso “alla lettera” – ovvero – seriamente, ma va letto come un omaggio, fedele quanto (auto)ironico, alla matrice videoludica dell’operazione. Le storie che sorreggono i videogiochi, anche quelli cosiddetti “adulti”, sovente infrangono la soglia del banalmente ridicolo e una volta isolate dal contesto, le “sceneggiature” dei vari Resident Evil, Metal Gear Solid, Splinter Cell, e ovviamente anche Silent Hill, si rivelano una fiera di indicibili banalità horror/fanta/politiche, spesso fatte cadere pure dall’alto (MGS2 docet).
Pungolato dalle acute osservazioni di Gianluca, torno sulla mia recensione per chiarire un paio di punti che potrebbero ingenerare equivoci. Innanzitutto l’invito iniziale a tralasciare la “sceneggiatura vagamente autoironica” non è un reale suggerimento a trascurarla, ma un’indiretta esortazione a leggere lo script di Avary come un luogo in cui confluiscono, smaliziatamente, le soluzioni più stravaganti, fantasiose e stupefacenti che si possano concepire. Una per tutte: Alessa Gillespie che riferisce a Rose di essere la Grande Mietitrice mi ha procurato un piacere letteralmente pythoniano. Sublime nonsense. Non so se questo twist narrativo derivi dalla matrice videoludica o sia una sardonica aggiunta avaryana (e in tutta franchezza non mi interessa granché). Ciò che conta, mi pare, è che l’impatto sullo spettatore sia così traumatico da spostare la fruizione su un altro livello: quello (auto)ironico, appunto. Letta in questo modo, insomma, la sceneggiatura di Avary si trasforma in una ghignante galleria degli orrori; il che, almeno ai miei occhi, le conferisce una sfumatura irresistibilmente sarcastica, costituendo, come si dice in questi casi, un considerevole valore aggiunto. Seconda questione: la “visività” cinematografica. Non intendo contrapporre accademicamente cinema di narrazione e cinema di sguardo – opposizione stantia quant’altre mai – quanto, piuttosto, rivendicare l’assoluta preminenza dell’articolazione visiva del senso filmico. Detto più chiaramente, quando è l’immagine a esprimere il significato – i significati, necessariamente - essenziale del film (significato non pacificamente traducibile in un altro linguaggio, in primis quello verbale), a mio avviso rientriamo nell’ambito del cinema come “arte della visione”. Ad “arte” sostituirei senza esitazioni “pratica” intesa come pratica significante (bordeggio il concetto di “specifico filmico” - altro campione di antichità teorica - ne sono consapevole, ma per lo meno irrobustito da una consistente componente semiotica). Da questa angolazione e di conseguenza mi risulta pressoché impossibile considerare i valori figurativi del film (l'abilità nell’uso della mdp e nella composizione dell’inquadratura, l’elaboratezza visiva e la densità fotografica) separatamente dalla valutazione dello stile concepito come trattamento complessivo della materia. E sempre da questa angolazione, Silent Hill affidando l’articolazione del significato essenziale (l’infernalità di cui sopra) alle immagini, ritengo quello di Cristophe Gans un film stilisticamente ed esteticamente risolto. Chiudo con una notazione apparentemente futile: il fiocco di cenere che cade sul viso di Radha Mitchell prosciuga il fiocco di neve che si scioglie in lacrima sul volto di James Van Der Beek ne Le regole dell’attrazione. Avary c’è. E si vede.