Commedia, Grottesco, MUBI

SICK OF MYSELF

Titolo OriginaleSyk pike
NazioneNorvegia, Svezia
Anno Produzione2022
Durata97'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia
Musiche

TRAMA

Quando il suo ragazzo artista comincia a rubarle la scena, una giovane ragazza di Oslo decide di assumere un farmaco dalle conseguenze potenzialmente letali pur di tornare al centro dell’attenzione, innescando un circolo vizioso.

RECENSIONI

Per parlare di Sick of Myself vi chiedo di immaginarvi all’interno di una stanza, al centro di una videoinstallazione a tre schermi, ciascuno dei quali corrisponde a una delle maschere che Signe indossa durante il film dopo aver volontariamente assunto un pericoloso farmaco, il Lidexol, per sfigurare il proprio volto e attirare l’attenzione dei media sulla sua storia, oscurando così i successi nel campo dell’arte contemporanea del fidanzato. Sul primo schermo scorre Eyes Without a Face di Georges Franju, un film su uno scienziato pazzo, su un mitomane che nasconde sotto le mentite spoglie di un atto d’amore un’ossessione: quella di ricostruire, anche a costo di dover uccidere, il volto della figlia che lui stesso ha sfigurato con un incidente stradale, e la cui maschera è diventata un’icona citata e iper-citata del cinema horror, qui “indossata” dalla protagonista nella seconda parte della sua convalescenza. Sul secondo schermo abbiamo invece uno split-screen: da un lato The Invisibile Man di James Whale, la storia di un uomo che scopre la formula dell’invisibilità attraverso una sostanza chiamata “monocaina” e che nasconde l’assenza del suo volto dietro un bendaggio molto simile a quello che Signe indossa in ospedale. Sul lato destro dello split-screen scorre invece il suo (bellissimo) remake del 2020, dove l’invisibilità viene prodotta attraverso un mantello di camere-occhio in un gioco di specchi digitale ideato da un uomo violento che grazie a questo potere si fa stalker dell’ex fidanzata (gli occhi delle camere che, puntati su Signe e la sua deformità, finiscono quasi per ammazzarla nel finale del film). Il terzo schermo della videoinstallazione è il vostro smartphone. Lo stesso smartphone su cui Signe scrolla incessantemente il feed di un magazine online per vedere quando sarà pubblicata la notizia dell’intossicazione che le ha causato il Lidexol e fino a quanto resterà in cima alla homepage, prima di sparire, farsi invisibile perché mascherata da notizie più importanti, più recenti, più morbosamente catchy. Quella stessa superficie dove scorrendo il feed del vostro profilo Instagram (lo fate, lo so che lo fate!) potete imbattervi in decine, centinaia di video di sedicenti psicoterapeuti che vi mettono in guardia dalle tattiche manipolatorie dei narcisisti patologici. Eccoci qui, infine: narcisismo. Parola abusata, storpiata, violentata, incubo socio-digitale. Forse il vero grande termine tabù del contemporaneo. Narcisista è sempre l’altro (“non sono narcisista” ci dice la protagonista all’inizio del film), un’immagine piatta, un flat character, il cattivone assoluto di cui non si può far altro che essere vittime. E questo è il ruolo che Signe agogna, quello di vittima, a costo di doversi andare a creare o inventare una patologia, un cataclisma, una sfiga con la quale esercitare una rivendicazione identitaria che la renda unica (“pare che io sia la prima al mondo a subire questa condizione”), ben sapendo che tutti attorno a lei non aspettano altro che un nuovo martire con cui identificarsi. Che sia un’allergia (Signe che finge di non poter mangiare le arachidi per attirare l’attenzione a una cena in onore del fidanzato) o una malattia della psiche (ancora vi rimanderei al vostro profilo Instagram e alle pagine dedicate all’ADHD), una condizione clinica che ne giustifichi le presunte colpe (“Sì, ho un problema… nessuno ha il libero arbitrio… nessuno vorrebbe essere uno psicopatico… nessuno vorrebbe avere desideri di autodistruzione”), l’aspirazione più alta della protagonista è quella di ergersi oltre un’insoddisfacente vita nell’ombra grazie a una storia di eroica innocenza (di resilienza direbbe qualcuno); che poi, altro non è che il travestimento del bisogno di acquisire una qualche forma di potere verso il fidanzato (che vediamo inchinarsi a lei e chiederle scusa in un sogno a occhi aperti) o verso la propria immagine allo specchio.

Ed è proprio qui che si pone la storia di Signe, di Sick of Myself (e quindi la storia di tutti, tranquillamente nauseati da se stessi, se solo si avesse il coraggio di guardare davvero il film), il punto di giuntura tra tutti gli schermi della videoinstallazione: non tanto in quello che mostrano, ma nel riflesso del nel nostro volto sopra le immagini che scorrono e che ne impalla la corretta visione. Signe, attraverso un dramma autoindotto, un farmaco a metà tra la monocaina e il Dylar di Rumore Bianco non trova tanto la formula dell’invisibilità ma, piuttosto, quella della visibilità. Il passaggio attraverso queste maschere le permette di trovare giornalisti che vogliano scrivere di lei e di entrare nel roaster di un’agenzia di moda che, come tante, sfrutta l’immagine di persone afflitte dalle più svariate disabilità per dare notorietà al brand, trovando così finalmente sfogo ai suoi desideri di notorietà. E come possiamo sapere, a proposito, che l’intero film non sia altro che una serie ininterrotta di fantasie di grandezza e di proiezioni narcisistiche, per come Brogli intreccia più piani mentali? Dal funerale a cui tutti assistono con sgomento, all’incubo di un dottore che la accusa di non essere cool ai party, dalle persone che le chiedono scusa per il male che le hanno commesso nel corso degli anni (cose da poco, tra l’altro), alle allucinazioni intollerabili del proprio ragazzo sotto i flash dei fotografi. Signe immortala la sua pelle dilaniata per poterlo comunicare al mondo perché la visibilità, il ritorno alla vita, non passa per lei dalla ricostruzione del viso, da un atto di cosmesi, ma dalla sua volontaria, deliberata deturpazione, dalla costruzione di un’immagine freak. L’unico modo per trovare un riflettore in un microcosmo dove tutti sono alla disperata messa in vetrina di se stessi (a Signe diranno di invidiare la sua malattia, perché è una malattia della superficie, evidente, visibile appunto) è un atto vandalico, terrorismo allo specchio, mostrato dal regista in un climax di tensione ascendente con logiche anti-aestethic (scusate), calcando la mano, trascinando le inquadrature di questo volto bubboso, marcescente, sanguinante, fino all’estremo, fino a causare la nausea negli spettatori e nella troupe che la guarda svenire durante uno shooting. È il body horror ai tempi di Instagram, dove le immagini scandalose funzionano finche sono digeribili, vendibili solo fino a quando non raggiungo il parossismo, fino a quando la malattia della pelle non si manifesta al punto da diventare intollerabile: per questo, il soffermarsi della macchina da presa sul volto della ragazza durante lo shooting, sul sangue e le pustole, sulle sue piaghe e sui capelli secchi, sfibrati, porta a farle diventare quasi immagini radiografiche, una radiografia dell’anima, una radiografia morale e una radiografia sociale che ci lascia col dubbio (intollerabile) su quanto di Signe ci sia in ognuno di noi.