Drammatico, Recensione

SICILIAN GHOST STORY

NazioneItalia, Francia, Svizzera
Anno Produzione2017
Durata122'
Liberamente ispirato al racconto Un cavaliere bianco di Marco Mancassola edito da Giulio Einaudi Editore nel volume Non saremo confusi per sempre
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Sicilia. Vanno a scuola, Giuseppe e Luna, hanno 13 anni, sanno di amarsi. Lui è il figlio di un pentito, per questo la madre di lei non vuole affatto che i due si frequentino. Un giorno il ragazzo scompare, come svanito nel nulla: è stata la mafia, ma il paese finge di ignorare, minimizza, rimuove. Luna, invece, comprende ben presto cosa è successo, e farà di tutto per ritrovare Giuseppe. Fino in fondo, fino al limite.

RECENSIONI

  "A Giuseppe Di Matteo (1981-1996), bambino sequestrato dalla mafia. Tenuto 779 giorni in prigionia,  strangolato  e dissolto nell’acido". Si ispirano alla sua storia Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, palermitani, classe 1968 e 1970,  che hanno vissuto come molti altri gli anni Ottanta e Novanta della città, della regione, nella dicotomia tra abissi passati e presenti e ipotesi di un futuro che mai si era visto prima.  Dopo Salvo, dunque, ecco Sicilian Ghost Story (dalla Semaine de la Critique di Cannes 2017, come il film precedente quattro anni prima), la cui genesi è in parte debitrice del racconto Un cavaliere bianco di Marco Mancassola, compreso nel suo Non saremo confusi per sempre (Einaudi).  Dal miracolo nell'opera prima tra Salvo e Rita, allora, all'amore e alla sorte che Giuseppe e Luna (gli esordienti Gaetano Fernandez e Julia Jedlikowska), senza saperlo, si inventano sulla scorta delle creature di Shakespeare. La torsione della cronaca in un realismo fantastico severo ma non sempre giusto, la predilezione più per l'immaginario che per l'evidenza, dal noir alla tragedia, dalla fiaba al racconto di formazione infuso in amore e morte, realtà e sogno, fascino e kitsch: sembra risiedere qui la cifra estetica - politica - di Sicilian Ghost Story, nel segno di un cinema che, dal corto Rita, appare al contempo tanto formalizzato e controllato quanto proficuamente sbilanciato, residuale; ora intransitivo senza intransigenza, ora tacitamente assertivo.

Questi fantasmi di Sicilia, queste soglie - fatte per essere violate, attraversate, abolite - che dividono l’acqua e la terra, gli uomini e gli animali, il bosco e il paese, il mondo sotterraneo e quello abitato, sono la forma e la sostanza, l’impianto teorico e lo svolgimento del film che così si nutre, fino all'eccesso, della presenza e dell’assenza, dell’oscillazione e ibridazione di tempo reale e ricreato, in un’antropologia vera eppur sognata. Ecco perché il contesto, la fattualità può ridursi ad apparato di superficie, a tratto, scena riconoscibile ed esatta fino a tramutarsi talvolta in scenetta, perché così possano dischiudersi le possibilità del simbolo, del cane nero che lacera uno zaino come se fosse una preda, della bonaria civetta che osserva e forse tutto conosce, degli alberi, delle rocce, dei suoni dell'acqua, degli animali ritornanti, tra muti presagi e verità. E allora anche un'autoritaria madre svizzera (Sabine Timoteo) può concedersi al pianto nei vapori di una sauna, un padre affettuoso (Vincenzo Amato) ma in fondo vile può gettare di nascosto i pasti preparati dalla consorte e godersi cibo da rosticceria insieme alla figlia, prima di pescare l’anguilla, prima, in realtà, che Luna "senta" e "veda" ancora ciò che gli altri non possono, o forse non vogliono, sentire, vedere.

In tutto ciò, l'amore mette in comunione la prigionia di Giuseppe e quella che Luna adotta, stringe il cuore e nutre sogni e misteri, visioni e privazioni, si traduce in parole su carta, brucia nel fuoco, si disincarna, anima senza più corpo, e continua a vivere per sempre, fino alla fine; si fa dolce, libero fantasma, una spiaggia ci dice che è così. Sicilian Ghost Story radicalizza tra didascalismo ingenuo e sottile impertinenza le simmetrie, le confusioni, gli sconfini; dei personaggi vuole fare dei mondi più che delle caratterizzazioni, vuole evocare più che rappresentare, astrarre più che dire. Alla fine, forse, però, resta il dubbio che possa trattarsi di un cinema di qualità più "sicura" di quanto non voglia apparire.  Più visibile che visionaria.