TRAMA
La psicologa Mary Portman (Naomi Watts) si ritrova a dover accudire il figliastro diciottenne Steven (Charlie Heaton), rimasto in stato vegetativo a seguito di un incidente in cui ha perso la vita il marito. Dopo la scomparsa nel nulla di un suo paziente, un bambino sordo (Jacob Tremblay) a cui Mary si era affezionata, la donna sarà perseguitata da incubi e visioni.
RECENSIONI
La famiglia. I suoi disequilibri, le tensioni interne, i conflitti aperti e sottesi; il suo punto di rottura. Le coordinate entro cui si muove Shut In, è facile intuirlo, sono quelle di uno dei grandi temi del cinema horror tutto, vero e proprio bacino atavico di significati e percorsi spesso al centro (o comunque a fianco, in diverse declinazioni) di molte storie tipiche del genere. Da Amityville Horror a Insidious, da Orphan a Goodnight Mommy, fino ai rapporti sbilanciati de L’esorcista, Carrie, o Babadook; pensare di elencarne anche solo una parte significativa è un’impresa che evidentemente richiede tutto un altro tipo di approfondimento. Basti richiamarne ancora una: la famiglia Torrance di Shining, ovvero quella che più ha saputo imprimere un marchio indelebile nell’immaginario del cinema dell’orrore.
Tutto questo, per arrivare al primo dei (ahimé, numerosi) grandi problemi di Shut In: il rapporto con la tradizione. Quello che Farren Blackburn (regista che ha lavorato più in televisione che al cinema) non riesce proprio a fare è crearsi il proprio spazio all’interno di un topos narrativo così ampiamente sfruttato, andando a scontrarsi di conseguenza con un immaginario troppo condiviso e solido, che non riesce minimamente a scalfire. Tuttavia, ciò che lascia quantomeno perplessi è proprio la totale assenza di un qualsivoglia progetto d’erosione, di un guizzo narrativo, anche solo di un’intuizione visiva capace di andare in tale direzione. Manca tutto questo, eppure Blackburn ha la spavalderia (leggasi: incoscienza) di andare a sfiorare ambienti e situazioni narrative che riecheggiano inevitabilmente alcuni dei film sopracitati (l’ombra di Shining aleggia prepotentemente in tutto il terzo atto: la rottura della porta con l’accetta, la tempesta, la fuga nella neve…). Ne emerge la più classica delle sfide di Davide contro Golia, dove tuttavia è il primo a soccombere, perché si è presentato al combattimento senza fionda. E non si parla di plagio, sia chiaro: il problema riguarda più l’incapacità di muoversi in quello scarto tra modernità e tradizione, tra omaggio e furto, tra citazione significante e citazione ludica che è tipico di molto cinema contemporaneo. Purtroppo, è un problema che Blackburn e la sceneggiatrice Christina Hodson non si sono neppure posti.
Ed è proprio lo script dell’esordiente Hodson a mostrare ben presto il fiato corto: al di là di una struttura tripartita fin troppo didattica (che poggia su un unico colpo di scena, anticipato e piuttosto prevedibile), i temi messi in campo fanno davvero fatica a trovare una dimensione emotiva approfondita. La paura delle trasformazioni della pubertà (“è come avere un estraneo in casa”), il bisogno d’affetto materno anche e soprattutto sulla soglia d’ingresso nel mondo adulto (di cui si fanno metafora le mani che spesso appaiono nei deliri di Mary e che la trattengono, quasi a non volerla lasciar andare), e dall’altra parte il desiderio della madre di ricominciare (anche attraverso l’avvicinamento ad un altro bambino), di riallargare i confini della propria vita oltre le mura domestiche; sono tutti elementi che emergono, ma che rimangono in superficie, semplici accenni a qualcosa a cui si è pensato, ma su cui non si è davvero riflettuto. E con queste premesse, pretendere che lo faccia lo spettatore è un’utopia.
C’è poi un particolare momento in Shut In che fa crollare in un colpo solo anche le già poche speranze che si potevano avere dopo un incipit piuttosto convenzionale, ed è un momento che riconduce ad un’altra grande difficoltà del film: la costruzione della paura. È notte fonda e dopo aver sentito un rumore sospetto provenire dai dintorni della casa, Mary esce per andare a controllare. A questo punto, dopo qualche minuto strutturato su una tensione piuttosto convenzionale (bassa illuminazione, scricchiolii, rumori inspiegabili), Blackburn costruisce uno jump scare su un procione apparso all’improvviso, che è talmente caricato, talmente prevedibile, talmente grossolano nella realizzazione da lasciar intendere la completa carenza di un’idea forte e personale sul modo di rappresentazione della paura. Sarà questo infatti lo schema in cui si articoleranno le sequenze più tese del film, tutte chiuse da jump scare sul modello-procione: è il sintomo di una totale mancanza di fiducia nei propri mezzi, cui Blackburn crede di sopperire attraverso il modo più diretto e immediato (ma anche il meno duraturo: giusto il tempo di un brivido lungo la schiena che si trasforma in risata) di costruzione del terrore. Nell’anno in cui James Wan ha lavorato in modo egregio sulla dilatazione temporale della paura nel secondo capitolo di The Conjuring, è davvero troppo poco. Se a questo poi si somma una certa macchinosità nel muoversi in spazi sempre più stretti (shut in significa proprio “rinchiudere”), allora tutte le carenze sono amplificate all’ennesima potenza. Anche qui, nell’anno in cui Fede Alvarez con Man In The Dark ha saputo interpretare spazi d’azione sempre più angusti, cogliendone appieno di volta in volta le potenzialità espressive, trasfigurandoli e riempiendoli di significato, mancanze come questa balzano all’occhio in modo davvero evidente.
Difficile dunque trovare un punto messo a segno da Shut In: è un film che pare vivere di opache luci riflesse, e che per questo non vive; nato già morto forse, o soffocato nel sonno proprio da chi ha preteso di giocare con un immaginario collettivo così imponente senza averne la forza. Anche per questo motivo, è un film che rimane inevitabilmente rinchiuso nello spazio dello schermo dove viene proiettato, senza riuscire non dico a dialogare, ma neppure a comunicare con lo spettatore in alcun modo. A queste condizioni, il vincitore sarà sempre Golia.