TRAMA
JJ Shaft lavora come analista dati per conto dell’FBI. Un giorno il suo migliore amico, Karim Hassan, muore apparentemente per un’overdose di eroina. Non accettando il fatto che Karim sia morto in questo modo, decide di indagare per conto proprio, andando a chiedere aiuto a suo padre, John Shaft, che lo aveva abbandonato venticinque anni prima per via della vita da poliziotto troppo pericolosa. Dopo che i due si ritrovano, John Shaft decide di aiutare JJ nelle indagini.
RECENSIONI
Tra il 1971 e il 2019 sono stati girati cinque film – più una serie tv, durata però solo sette episodi – dedicati al detective privato dai modi rudi e sbrigativi John Shaft. Tre di essi si chiamano semplicemente Shaft, in tutti e cinque appare l'interprete originale Richard Roundtree ma negli ultimi due il protagonista è Samuel L. Jackson. La distinzione, tuttavia, è più semplice di quanto possa sembrare, e segue una logica abbastanza ovvia: la trilogia che va dal 1971 al 1973 rappresenta il “vero” e originale Shaft, quello creato con un'urgenza narrativa e un preciso scopo socio-politico; i due capitoli successivi (2000 e 2019) sono ascrivibili alla categoria delle imitazioni e delle riesumazioni, sotto forma di remake. Il personaggio è fortemente radicato in un contesto di controcultura, rivoluzione e indipendenza, ed è diventato istantaneamente il portavoce della blaxploitation (assieme al Gravedigger di Pupe calde e mafia nera realizzato da Ossie Davis e allo Sweetback di Sweet Sweetback's Baadasssss Song diretto da Melvin Van Peebles) e dei cosiddetti “film-guerrilla” in cui l'afroamericano si ribella idealmente al razzismo e allo schiavismo proponendosi come modello culturale alternativo. Il fatto che Mr. Shaft sia stato creato come strafottente risposta al James Bond di Ian Fleming fa poi il resto: alla patina e alla pulizia formale di 007 fanno da controcanto i metodi spicci e volutamente grezzi di un carattere che non ha tempo da perdere e che va dritto al punto senza troppi convenevoli. Improbabile – se non proprio impossibile – aggiornare quel franchise, che necessita da un lato dell'inamovibilità del personaggio e dall'altro di qualche innesto per rendersi vendibile e appetibile per le nuove generazioni. Il gioco funziona, ad esempio, con Django Unchained di Tarantino e BlacKkKlansman di Spike Lee, che prendono quel tipo di nostalgia filmica e la rielaborano in nuovi contesti. Come a dire che si parla di Shaft e della sua eredità, senza però apertamente tirarlo in ballo.
Ripescare ogni tot quell'icona e quello stile è diventata una sorta di “libera uscita”, di cup of tea per i fan della prima ora e di blando tentativo di accendere la miccia della passione nei post-adolescenti di turno. Non è un caso che il nostro punto di vista, nello Shaft di Tim Story (un regista che in un'altra galassia avrebbe potuto avere una fulgida carriera, e che invece non si è mai ripreso dal doppio tonfo di I Fantastici 4) coincida con quello del millennial JJ, analista dati dell'FBI nonché figlio proprio di John Shaft. Così prende forma il reboot, apprendendo da zero la ruvidità e l'autarchia del padre attraverso lo sguardo di chi non l'ha mai visto prima, ad uso e consumo cioè dei neofiti. La trama criminale, del tutto accessoria, serve solo a favorire le sequenze comiche e autoironiche, la strizzata d'occhio metacinematografica (come quando Jackson sbotta in un «Questi continui paragoni con Laurence Fishburne mi hanno stufato», alludendo a chi realmente lo confonde con l'attore di Matrix) e la deriva pulp con utilizzo di violenza stilizzata e cartoonesca. Un prodotto innocuo e convenzionale (e, di conseguenza, inutile), che lascia in verità sul campo una questione irrisolta: Shaft è dalla parte di Shaft o lo ridicolizza? Considerando che lo sceneggiatore Kenya Barris è anche showrunner della sitcom Black-ish, siamo più propensi a credere alla seconda ipotesi, ovvero al continuo e reiterato inside joke in cui si ammette che il vecchio Dirty Harry di Harlem amante del piacere sia morto e sepolto, assieme alla sua mentalità obsoleta e controversa. A chiarirlo dovrebbe essere il tono sarcastico e sopra le righe dell'insieme, ma il meccanismo (ci sembra più a causa della regia che dello script o del cast, su cui spicca la sempre più efficace Regina Hall, riscoperta grazie a Black Monday), si inceppa troppo spesso lasciando aperta la possibilità di un'ambiguità di fondo e di una facile fraintendibilità, soprattutto considerando il nuovo potenziale target di riferimento.