TRAMA
Virginia, nobildonna sposata con un uomo di successo, intende indagare sulle motivazioni di alcune inquietanti e inspiegabili visioni che stanno turbando l’andamento della sua vita coniugale.
RECENSIONI
Non riteniamo che esistano altri dubbi sul fatto che Lucio Fulci sia stato ed è tutt’ora uno dei più grandi maestri della cinematografia di genere, o de-genere, riuscendo con straordinaria efficacia a coniugare la precisione di Freda, la maestria di Bava (Mario, manco a specificare) e l’inventio argentiana. Un ulteriore riconoscimento postumo che non serve certo a riequilibrare il giudizio su uno dei più sottostimati registi (pre-revisionismo) del cinema dell’italico suolo, ma che in qualche maniera intende attestare la stima per gli indiscutibili esiti estetici raggiunti (anche se ovviamente non in tutti i casi) dal percorso cinematografico di un cineasta (che amava definirsi “artigiano del cinema”) che ha fatto dell’eccentricità il punto cardine per reinventare un genere come il thriller all’italiana declinandolo seguendo una matrice fantastico-orrifica. Fulci approda al thriller dopo una ormai decennale esperienza maturata all’insegna di sconclusionati musicarelli (forse qualcuno ancora ignora che i primi successi musicali di un certo Adriano Celentano sono scaturiti dalla folgorante inventiva della premiata ditta Fulci-Vivarelli) e di ineffabili commedie prevalentemente con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Sette note in nero giunge in un 1977 in cui il thriller italiano stava conoscendo una fase decisamente declinante, si stavano annunciando i tempi per una nuova ondata di cinema horror (genere che avrebbe permesso a giovani registi come Argento, Lenzi, Bava figlio e lo stesso Fulci di seguire la loro vena più dichiaratamente incline all’immaginazione orrifica e truculenta). I contributi più visionariamente significativi nei confronti di tale genere Fulci li aveva già dati girando pellicole anomale e destabilizzanti per l’epoca come Una sull’altra, Una lucertola con la pelle di donna e Non si sevizia un paperino e stava attendendo di consegnarci i suoi tre autentici capolavori senza virgolette, in ordine cronologico: Zombi 2, L’Aldilà – E tu vivrai nel terrore ePaura nella città dei morti viventi.
La pellicola in questione gioca le sue carte non tanto sul tavolo della convenzionalità del canovaccio (peraltro ben congeniato), convenzionalità coesa del resto su tutti i cliché imposti dal genere in quegli anni a cominciare dai titoli nei quali erano rigorosamente presenti numeri, colori e/o animali (i carillon, le case di campagna, la chiaroveggenza, il perturbante che si annida tra le mura domestiche), ma su quello della sintassi cinematografica tout court fondando la costruzione della suspense su elementi non prettamente diegetici ma visivi, o meglio attribuendo una struttura narrativa alla logica della visione, finendo inevitabilmente per pagare ingenti contributi a Mario Bava. Il soggetto naturalmente si prestava in maniera abile a questo divertissement ad incastri visivi (e visionari) in cui la strategia della tensione si costruisce a partire dal gioco associativo per dejavu delle tessere di un puzzle mentale da ricomporre il cui senso va colto seguendo attentamente la dialettica visiva del soggetto supposto vedente/rammemorante in cui giocano il ruolo decisivo gli immediati spostamenti di campo, i movimenti improvvisi della m.d.p. i primi e primissimi piani e gli immancabili indugi sui dettagli. Il tutto calato in inquietanti atmosfere in una Firenze che non direste mai così lugubre e agghiacciante. Funzionali le musiche dell’inestimabile trio Bixio-Frizzi-Tempera. Il genio di Fulci solleva il film di mezzo voto da un’impietosa sufficienza.
