Drammatico, Recensione

SENSO

TRAMA

Venezia, 1866. La contessa Serpieri, fervida sostenitrice del movimento antiaustriaco, s’innamora di un tenente delle truppe d’occupazione…

RECENSIONI

Avvolto da drappi rossi, un bozzetto per Il Trovatore verdiano passa dalle due alle tre dimensioni: la macchina da presa si avvicina ai personaggi, ne svela la simulazione (lo scudiero dietro le quinte), ruota su se stessa e segue il tenore fino alla ribalta, da cui inquadra il pubblico e la sala. Con un piano sequenza di bellezza quasi crudele, Visconti s'immerge (ci immerge) nel dramma che ha scelto di rappresentare: 'Senso' non è (solo) una tragedia dell'eros, ma una riflessione sul ruolo della messinscena in ogni progetto cinematografico. Il nucleo centrale (non) è la solita storia di amore, tradimento e morte. Livia non ama Franz, ama l'immagine idealizzata del loro rapporto, un rapporto nato per esigenze egoistiche (il tentativo della donna di salvare il cugino) e destinato a continuare sugli stessi binari (soprattutto per luo'mo). Dal giovane ufficiale privo di qualità (positive), bello ma pusillanime, appassionato solo a parole, la donna si sente attratta non tanto per una frustrazione sessuale (ha sposato un uomo più anziano), quanto per il desiderio di riversare nell'amore la stessa 'eroica', esaltata dedizione che l'ha spinta a dedicarsi alla causa italiana. Il romanzo d'amore, in nome del quale Livia ha tradito la propria missione patriottica, naufraga miseramente: le illusioni lasciano il posto a una vendetta atrocemente concreta. La cieca vertigine cui i personaggi si abbandonano, (non del tutto) ignari del proprio destino, è sottolineata dal regista con un allestimento interamente risolto nel segno di una stilizzazione opulenta, mai sovraccarica. Il regista non vuole fare della filologia: scene e costumi sono ottocenteschi non perché 'plausibili' per l'epoca, ma in quanto presenti nei dipinti del periodo, dai quali provengono molte inquadrature (l'abitazione degli ufficiali, il bacio degli amanti); al tempo stesso, le scenografie dell'opera che va in scena alla Fenice sono di Nicola Benois, collaboratore abituale di Visconti.
La 'realtà' cinematografica è ri-creata non a partire dalla vita, ma da un'invenzione a proposito della vita, e non solo perché naturalismo e realismo non sono sinonimi, ma perché in tal modo è ancora più evidente, a un livello per così dire fisico, lo scarto fra oggetto e riflesso, ombra e figura, personaggio e persona che è alla base della fabula e dell'intreccio dell'opera. I personaggi non interagiscono fra loro, ma vivono ciascuno in un teatro (o cinema) personale che s'illudono di poter dirigere in maniera autonoma, decidendo le entrate, le uscite, le azioni e le psicologie degli interlocutori. Inevitabile conclusione di simili esercizi di vanità e misantropia è un insanabile conflitto interpretativo (il déjeuner a casa di Franz, in cui la signora e la puttana sono equiparate) che causa disperazione, odio e un'ultima, fatale rappresentazione: la fucilazione del tenente, che si collega a un'altra condanna a morte, il rogo melodrammatico che aveva aperto il film. Incorniciato da una successione ininterrotta di specchi che moltiplicano le prospettive e (con)fondono i piani della rappresentazione (come nel folgorante prologo), finestre i cui vetri isolano e allontanano i volti degli amanti, palchi che separano e uniscono avversari e alleati, acque che rendono cadaveri e fantasmagorie romantiche, 'Senso' è una macchina barocca di assoluta perfezione formale e lancinante disperazione, che trova in Alida Valli l'interprete perfetta. A dir poco spaesato, Farley Granger fa quel (poco) che può: del resto, Franz ha fascino solo agli occhi di Livia.

Con quest’opera ha inizio quello che i critici hanno chiamato il realismo storico di Visconti e che il regista ha preferito rinominare realismo romantico: sterili detriti della diatriba sull’eredità del Neorealismo, utili a incasellare il futuro viscontiano in cui la Storia sarà, sempre più, sfondo del dramma familiare e individuale. Siamo di fronte, in realtà, al puro melodramma ed è il tocco raffinato, elegante di Visconti a restituirlo con una verosimiglianza e un vigore narrativo inconsueti, a rimpolparlo di sfaccettature psicologiche ed ideologiche profonde. Il Risorgimento interagisce con le vicende dei personaggi, alcuni dei quali (Franz Mahler su tutti) realizzano il tramonto della loro era, magnificata dal regista (anche) con la sontuosità delle ambientazioni aristocratiche, con la maniacale ricercatezza in costumi e suppellettili, con i dipinti (“Il Bacio” di Francesco Hayez, i macchiaioli) riversati su pellicola, rendendo dominanti il blu e il rosso fuoco della sensualità. La cinepresa sa quando essere accademica o dedicarsi al virtuosismo (bellissimo il piano sequenza in apertura, girato al teatro La Fenice di Venezia, dove l’autore inverte la prospettiva per fare di tutto il mondo un palcoscenico). Maestria, non formalismo, stile che non può essere disgiunto dal resto, che non predomina ma contribuisce, come fanno la Storia, il mélo e il profilmico, a focalizzare l’attenzione sulla tragedia umana (il cinema di Visconti, nonostante le apparenze, è sempre antropomorfico): è per questo, anche, che il registro melodrammatico rischia di debordare, che le dinamiche del racconto sono prevedibili, che i punti di inquadratura teatrali (si parte con “Il Trovatore”) si mettono al servizio (filmico) della pantomima della Realtà. A Visconti importa il “senso” della passione che lega la contessa all’austriaco, restituito con i colori e con sequenze erotiche (Alida Valli nuda con camicia da notte trasparente). I due attori principali, purtroppo, non sono all’altezza delle intenzioni estetiche di Visconti, che li vuole enfatici per smascherarne la recita, ma è la messinscena la vera protagonista con il suo sguardo di inusitata ferocia sull’Amore (quello fasullo, “recitato”) che fa perdere il controllo di sé, mette i paraocchi, inganna e illude; con il suo sguardo altresì pietoso su due anime egoiste, l’una opportunista e vigliacca, l’altra egocentrica ed insensibile (potente e mesto il finale, dove Mahler schernisce l’amante e se stesso): siamo in territorio von Sternberg, von Stroheim, Autant-Lara (L’Uomo e il Diavolo). In nome della Passione si tradisce la patria, si uccide travolti da sentimenti iniqui e falsi e, soprattutto, si escludono valori più alti, il mondo esterno, la Storia e la Politica, per restare abbracciati incuranti di Paradiso e Inferno (citazione di Heine). La desolazione finale è solo sinonimo di un’agghiacciante solitudine. Criticato e censurato alla sua uscita (tagli su tutto ciò che, come DC denunciò, diffamava le forze armate e il Risorgimento, visto come rivoluzione fallita), il film rivela l’immensa complessità di un autore pessimista e decadente che, a volte, si celava dietro forme popolari di rappresentazione. Da un racconto di Camillo Boito, dove Livia è una giovane di provincia e non una contessa.