TRAMA
I detective Mills e Somerset, l’uno giovane e spavaldo, l’altro anziano e misurato, sono sulle tracce di un feroce serial killer che uccide le sue vittime ispirandosi ai sette peccati capitali.
RECENSIONI
Opera seconda del californiano David Fincher, dopo l’ingenerosamente bistrattato Alien Cube, Se7en ha fatto, nel suo non piccolo piccolo, epoca. Giunto dopo IL serialkillerthriller della cinematografia contemporanea, The Silence Of The Lambs, il film di Fincher è riuscito a reggere il confronto, o meglio, a “sfuggire” al fin troppo ovvio paragone, e a ritagliarsi uno spazio autonomo e duraturo all’interno di un genere affollato fino alla saturazione. E tutto grazie alla forma. La sceneggiatura di Andrew Kevin Walker, infatti, è senz’altro buona e sfoggia un finale addirittura ottimo, ma non è così buona da nobilitare ben oltre il cliché (l’”oltre” dove invece si colloca Se7en) la storia di due detective (1 bianco, giovane, irruente + 1 nero, maturo, saggio) a caccia di un perverso killer seriale che agisce in una città buia e piovosa; e a nulla servirebbe chiamare in causa le banali citazioncine scolastiche del “Paradiso Perduto” di Milton o della “Commedia” del nostro Sommo Poeta. La verità è un’altra. La verità è che Fincher assorbe e sublima tutto nella forza di uno stile deciso, carico, vigoroso che colpisce e affonda al primo colpo, che ignora il termine “sottrazione” ma che al contrario (si) ostenta, fiero e spavaldo, in tutta la sua cinematograficità. E che sa essere personale e perfettamente riconoscibile, nonostante le visibili rimembranze estetiche videoclip-ish (d’altronde la provenienza del buon David è quella…) e una quasi infantile tendenza all’eccesso figurativo (la scelta di Rob Bottin come curatore dello special make-up mi pare, a tale proposito, chiarificatrice…). Certo, per gustare il “vero” Fincher, orgoglioso di non avere niente da dire se non Cinema, abbiamo dovuto aspettare lo splendido, spudoratamente metacinematografico The Game e il successivo Fight Club, mirabile esercizio di irriverente cinismo a tutti i livelli di lettura possibili, ma già Se7en è un antipasto eloquente.
Il Silenzio degli Innocenti ha aperto le porte dell'Inferno (e, prima di lui, l'Anticristo: Manhunter), dell'Orrore con le sembianze umane, della Follia come lucido e affascinante (anti)virus al Caos morale del moderno. Seven segue la scia, ripesca l'idea dei pittoreschi omicidi "biblici" da L'Abominevole Dr. Phibes e Oscar Insanguinato, segue alcuni binari obbligati di genere, ri-elabora le matrici del poliziesco (il conflitto fra l'esperto e il pivello, l'Angelo Sterminatore ossessionato dalle indagini che lo riguardano). È evidente che, attraverso il disegno di figure "maledette" (la moda dei serial killer), stigmatizzate come "nemiche", il cinema commerciale statunitense può ora sbizzarrirsi nel rappresentare il Male in tutta la sua inverecondia, giocando pericolosamente sulla sua attrazione/repulsione, rendendolo al contempo fucina e lavatoio dei delitti umani. Lo sceneggiatore Andrew Kevin Walker denuncia la decadenza delle società sia attraverso lo psicopatico sia tramite il suo contrario, il vecchio e scettico poliziotto, stanco della violenza, ma sicuramente meno ignorante delle nuove generazioni. Fincher sottolinea tale squallore con un diluvio universale in gocce (la pioggia incessante), un dècor apocalittico alla Blade Runner (con i colori infuocati di Angel Heart) e destabilizzanti riprese a mano degli inseguimenti, mentre il direttore della fotografia Khondji sfodera tutta la tavolozza dei colori dell'Incubo per stare al passo con il pazzo e la sua creatività: ogni delitto-peccato capitale ha il suo nume tutelare (da Heron Ymusbosch, per la Gola, al Tetsuo di Tsukamoto per la Lussuria, poi S. Tommaso D'Aquino, Dante, Milton, Shakespeare, Chauler). Il climax della seconda parte è implacabile e sfocia in un finale sorprendente e tragico che resta nella memoria, espressione di Brad Pitt (fin lì, invero, poco convincente) compresa. Vincono il Male e con esso il grido d'allarme che vorrebbe distruggerlo: niente di strano, quindi, se i titoli di coda scorrono al contrario con la “Heart’s filthy lesson” di David Bowie.