Sala

SCREAM 4

TRAMA

Dieci anni dopo, Sidney Prescott torna a Woodsboro per presentare un libro in cui racconta la sua esperienza di sopravvissuta ai molteplici assalti di Ghostface. Il suo arrivo in città segna l’inizio di una nuova serie di delitti.

RECENSIONI


A un decennio e passa di distanza da Scream 3, sontuoso e sottovalutato epilogo (momentaneo) della saga del serial killer urlante, Craven torna con un film parlando del quale verrebbe voglia di sfoderare il prefisso meta- in tutte le combinazioni possibili, martellando i lettori con una furia paragonabile solo a quella del massacratore mascherato. Se il film precedente portava Ghostface a Hollywood, immergendolo nell’atmosfera incantata e ammorbante della Babilonia di celluloide, Scream 4 si spinge oltre, mostrando come la saga di Stab (Squartati), il film (nel film) ispirato al libro di Gale Weathers, sia divenuta, col tempo, un fenomeno di culto (clandestino, quindi ancora più intenso), almeno per i fan che, come per il Rocky Horror, ne ripetono a memoria le battute durante la maratona notturna collocata, non a caso, al centro esatto dell’opera. La serie di Stab si è progressivamente allontanata dallo stile semiamatoriale del primo capitolo (già “ammirato” in Scream 2), perdendo i tratti grezzi e grossolani del B movie per acquisire quelli perfettamente levigati delle commedie a grosso budget, brillanti, surreali e soprattutto perfettamente coscienti del proprio status fittizio. I film di Stab si “incastrano” gli uni negli altri con la massima disinvoltura, riciclano l’idea originale (una vittima, un telefono, un assassino in agguato) smontandola fino alla nausea, cercano il (letterale) colpo basso e lo trovano senza remore, picchiano duro perché sanno bene di non potere scalfire l’indifferenza di un pubblico ormai assuefatto a qualunque sorpresa. Il prologo di Scream 4 annuncia, per contrasto, il ritorno a una misura “classica” del (sotto)genere slasher: uno scherzo (una reazione alla noia provocata da Stab) sfugge di mano ai personaggi, la regia del gioco passa, quasi di soppiatto, nelle mani del killer, la carneficina rimane più suggerita che mostrata. Bastano i primi dieci minuti a definire l’atmosfera del film: l’horror non come fuga dal reale, bensì come chiave di lettura del quotidiano. Ci viene promesso, insomma, un dramma con squartamenti. Che è poi la cifra caratteristica della saga di Scream, dal primo all’ultimo (per ora) capitolo.


Tolti di mezzo gli aspetti più truculenti (con l’eccezione, gustosa proprio perché tale, della morte dei poliziotti), Scream 4 si profila infatti come una commedia dal tono realistico, scattante nella scansione narrativa (ma non sotto il profilo dei dialoghi: lo schematismo e la monodimensionalità di Kevin Williamson sono duri a morire, anche più di Sidney), in cui i temi si accavallano gli uni agli altri quasi lottassero per imporsi all’attenzione del regista, prima ancora che del pubblico. C’è, come sempre, l’isolamento che costituisce la cifra caratteristica di Sidney, messa al bando (neppure tanto velatamente) dagli altri abitanti di Woodsboro, familiari in primis, ma anche la crisi professionale, e quindi coniugale, di Gale, esasperata dal sospetto di una relazione fra il marito, lo sceriffo Linus, e la giovane agente Judy, e ancora lo sberleffo riservato al mondo dell’informazione, incarnato da Rebecca, la cinica e non troppo scaltra assistente di Sidney, cui Craven dedica, non senza una punta di divertito compiacimento, la sequenza migliore del film. E, supremo omaggio alla memoria del teen movie, non possono mancare i giovani di Woodsboro, ancora meno furbi, persino più assorti in se stessi di quelli di undici anni fa, ognuno preda di una mania (lo sfoggio di cultura cinefila, la passione per la tecnologia, la civetteria, un’impossibile storia d’amore), tutti destinati a cadere vittime del gioco di Ghostface, che resta, fra i killer horror, il più strano e sfuggente: forma senza contenuto, maschera dietro la quale può celarsi chiunque (il che, alla lettera, avviene nella grandiosa scena della maratona di Stab), presenza che in questo film sembra aggirarsi sul set al solo e unico scopo di farsi catturare da un occhio meccanico o da una superficie riflettente, annunciata, quasi presentita, da un soave tintinnio di campanelli.


Ce n’è insomma abbastanza perché il rischio della confusione, dell’eccesso e quindi della noia – peccato supremo per un film del(/di) genere – sia più che concreto. Eppure, se la sceneggiatura scricchiola e non poco (sembra che il finale sia costato a Williamson ben più di un ripensamento), la regia non conosce un attimo di tregua, inanellando sequenze di assoluto pregio (oltre alla scena già citata, da ricordare almeno l’omicidio narrato “in diretta” telefonica e la delirante, meticolosa e a dir poco sprezzante messinscena attuata nel prefinale), costruendo una tensione continua attraverso un sapiente dosaggio di suspense, sorpresa e aspettative deluse, che ha un vertice assoluto nell’assedio cui sono sottoposte Sidney e sua zia, trovando in semplici e quasi banali scelte profilmiche la chiave per una definizione dei personaggi che sfugge allo stesso sceneggiatore (il taglio di capelli “da signora” che l’eroina sfoggia alla presentazione del libro cede rapidamente il posto a una pettinatura che ricorda da vicino quella adottata negli altri capitoli, rendendo così ancora più chiaro il “ritorno a casa” di Sidney). Questo e molto altro ancora è Scream 4, il classico film che si presta alle più ardite vivisezioni accademiche, ma che per sua (e nostra) fortuna è in grado di sopravvivere, per quanto possa sembrare improbabile, alle più feroci torture.

Ci so ancora fare. (Gale Weathers)