Horror

SAW II

TRAMA

Jigsaw è tornato, più ingegnoso che mai, e ha chiuso un manipolo di stereotipi in una casa disseminata di enigmi e trappole mortali: che abbia visto Cube di Vincenzo Natali?

RECENSIONI

Dunque eccoci a Saw II, con Saw III già all’orizzonte. Chissà, magari la serie reggerà e il personaggio di Jigsaw riuscirà a ritagliarsi un suo umile spazietto accanto agli epigoni di Hannibal Lecter… non che le frecce all’arco enigmistico siano poi molte, ma quelle che ci sono per ora reggono e sono capaci di portarsi dietro qualche fan: intanto c’è un’atmosfera da B-movie che si manifesta in una certa sciatteria a livello di sceneggiatura, con personaggi monodimensionali, dialoghi inconcludenti, nonsense e tutto il consueto armamentario che, se preso per il verso giusto, fa simpatia e dà “un che” invece di disturbare. Poi c’è un livello di crudeltà (anch’essa molto “B”) superiore alla media, sulla quale però conviene subito aprire una parentesi: se è vero infatti che il tasso emoglobinico è alto e che, teoricamente, i bruciati vivi e le (auto)mutilazioni non sono così frequenti nei thriller convenzionali, è altrettanto vero che i due Saw, da questo punto di vista, barano un po’, il II più del I. La violenza grafica, in effetti, c’è ma a ben vedere è più suggerita che mostrata, anche se non banalmente relegata fuori campo (espediente da due soldi che fortunatamente ci viene risparmiato) ma bensì “camuffata” da una macchina da presa mobilissima e da un montaggio frenetico tendente al confusionario puro e semplice. Infine, e soprattutto, c’è “l’idea”, il colpo di scena che rischia di diventare il vero marchio di fabbrica della serie, quello che nel III tutti (si) aspetteranno e che finora ha salvato capra e cavoli. Nel primo capitolo si trattava di una trovata di puro script (l’assassino era sempre stato “in scena”, finto morto davanti agli occhi di tutti) mentre in Saw II il discorso si fa un tantino più complesso e più formale. Se si volesse infatti individuare una vera differenza tra il polso registico di James Wan (classe ’77) e quello di Darren Lynn Bousman (classe ’79), sostanzialmente sovrapponibili per certe, già accennate, scelte “clipparole” nate vecchie, è proprio una maggiore propensione di quest’ultimo a giocare con la forma. Il trucchetto tutto cinematografico che regge Saw II non è infatti lontano dai classici espedienti truffaldini cari al re dei giocatori Hitchcock (si veda il paradigmatico falso flashback che apriva Stage Fright) e riguarda proprio un palese inganno ai danni dello spettatore che, sviato da un montaggio apparentemente e convenzionalmente alternato e da fluidi non-stacchi schermo nello schermo, non si accorge della diacronia diegetica che gli passa sotto gli occhi. Enigma nell’enigma→Gioco nel gioco→Cinema nel Cinema? Roba vecchia come il cucco, si sa, ma nella fattispecie funzionale e funzionante. Musiche di Charlie Clouser, noto soprattutto come  produttore e collaboratore dei bolliti Nine Inch Nails di Trent Reznor, dei quali rappresenta una sorta di installazione minima. Tra gli attori, ininfluenti caricature, merita menzione la bella e matura Dina Meyer, l’indimenticabile Dizzy Flores di Starship Troopers.

L’esordiente Darren Lynn Bousman fa sua, volente o nolente (ha dovuto trasformare una sua sceneggiatura originale in questo sequel), la creatura del regista James Wan (qui solo produttore esecutivo) e Leigh Whannell (co-sceneggiatore), ingegnandosi nei tempi (25 giorni di riprese) e nel budget (comunque più alto del precedente), ripagato dal botteghino. Proveniente (anche) dai video musicali, ha il disgraziato vezzo di utilizzare troppo le accelerazioni in montaggio digitale, per quanto efficaci nel far sembrare tutto più “curato”, “stra-ordinario”. Gli elementi più indovinati del primo SAW erano i colpi di scena e i meccanismi delle trappole: Bousman, purtroppo, trascura soprattutto questi ultimi pensando a pellicole come My Little Eye, all’idea cioè di un gruppo di persone chiuso in ambiente periglioso, pronto al massacro e a massacrarsi. Il tutto funziona, anche se non brilla per invenzioni (poco numerose o poco memorabili) e non sfrutta i migliori coup de théâtre, rovinati da una certa prevedibilità (vedi quello finale, dove il detective diventa vittima di una trappola progettata in modo geniale: si intuisce troppo presto cosa accomuna i prigionieri). Ancora citazioni, per lo più argentiane (il bagno di siringhe, bella scena, come il filo spinato di Suspiria; la pistola nascosta dietro l’occhiello di Opera; la casa segreta che è L’Ultima Casa a Sinistra) e qualche tocco sagace dello script: la filosofia dell’enigmista (ascoltare le sue battute), la trappola per le mani (senza le solite istruzioni per l’uso ma con tutti gli elementi in campo per comprenderle), certe soluzioni-deduzioni a seguire (vedi quando si comprende perché due delle vittime non sono colpite dal gas nervino). Bousman dirigerà altri due capitoli, portando la saga su territori sempre più violenti e seriali e dando alla sua trilogia un aspetto molto personale.