Grottesco, Recensione

SANTA SANGRE

Titolo OriginaleSanta Sangre
NazioneMessico/ Italia
Anno Produzione1989
Genere
Durata117'

TRAMA

Fenix, un giovane con un passato da attrazione circense vive in un manicomio perché da bambino è rimasto traumatizzato da una tragedia familiare: il padre, dopo aver amputato entrambe le braccia alla madre che lo aveva castrato gettandogli dell’acido solforico, si è suicidato tagliandosi la gola.

RECENSIONI

Il genio jodorowskyano dopo autentici culti quali El topo e La montagna sacra torna, grazie all’intervento produttivo di Claudio Argento e di anonimi finanziatori giapponesi, ad affascinare il nostro immaginario con questo visionario delirio filmico debordando l’esperienza visiva dello spettatore di immagini cariche di simbolismi che tracimano colore e invenzione ad ogni singola sequenza. La pellicola, al di là della folle storia sulla quale è costruita (freaks baracconeschi, bestie da circo e sante senza braccia intorno ai quali ruota una vicenda drammatica che segna il destino di un ragazzo prigioniero delle proprie ossessioni) presenta un tripudio di materia immaginifica organizzabile solo a livello puramente percettivo. L’impianto diegetico che tra tanta volontà di allucinazione malcela un percorso edipico dalla riconoscibile simbologia psicanalitica (il perturbante fantasma della madre che, sottoposta allo stesso truce trattamento, si sovrappone alla inquietante figura della santa vergine dalle braccia amputate della quale è lei stessa devotissima cultrice, diventa l’ossessiva gabbia mentale dalla quale il misero Fenix tenta di liberarsi, incappando in efferati omicidi di diverse ragazze), affastellando quadri di onirica suggestione, offre un flusso magmatico di sensazioni che scorre sotto traccia, e dalla cui visionarietà si rimane inevitabilmente folgorati. La sostanza di tale scorrimento carsico è quella vermiglia del sangue, il sacro fluido che anima misticamente i viventi e che rosseggiando manieristicamente in tutta la pellicola vivifica matericamente, come forse il regista cileno non aveva mai fatto, l’opera di Jodorowsky. Il delirio rosso dipinto da questo apolide delinquente sacro della settima arte (esponente insieme a Topor e Arrabal del glorioso teatro panico) imbratta con surrealistica verve e divertita truculenza le moralistiche coscienze del perbenismo di chi affida, all’insegna del politically correct, il valore (e le sorti) del cinema all’esclusiva efficacia del “messaggio” testuale, o peggio ai meccanismi dello starsystem che dovrebbe veicolarlo, divenendo monumento estetico sregolato e irriverente all’immaginazione visionaria. Persiste pertanto la convinzione che per Jodorowsky il cinema sia ancora una volta il luogo di una rappresentazione sacr(ileg)a finalizzata a danneggiare provocatoriamente la rinuncia al poetico dichiarata dal senso comune.