
TRAMA
Sudafrica: Tobin Frost è un ex agente dei servizi segreti che vende ad anonimi acquirenti le informazioni della CIA. Catturato, viene tenuto in custodia presso una safe house dove lavora la recluta Matt Weston. Dopo uno scontro a fuoco con una squadra di mercenari, Matt, unico sopravvissuto con Tobin, avrà l’incarico di scortare e proteggere il prigioniero.
RECENSIONI
Un luogo sicuro non esiste.
E' da molto tempo che l'operato dei servizi segreti, tanto ambiguo eticamente quanto chiaro nelle sue falle e corruzioni, fa da specchio ad un Paese sempre più corrotto e che accetta ormai consapevolmente di sapere che il suo primo nemico, il più pericoloso, si cela proprio al suo interno.
Fenomenologia essiccata e ridotta all'osso, post 11/09, che comunque porta avanti un terremoto interno risalente a qualche decennio prima. La sfiducia verso l'ingranaggio del sistema si può combattere solo ed unicamente attraverso un respiro ancora umano, un ormai antico immaginario di giustizia introiettato dentro una testa, quella di Matt; il quale però passo dopo passo lo rimetterà in discussione insieme alla sua facciata di valori da bravo ragazzo americano, lasciando invece posto ad un gioco sempre più sporco.
Matt, finora usato dalla Cia solo come ''guardiano annoiato'' di una safe house, si ritroverà improvvisamente all'interno di quell'azione che lui aveva tanto aspettato, inizierà così una caccia all'uomo, che da una missione con dei compiti ben precisi da svolgere si trasformerà in un confronto tra due persone, Matt e Tobin.
Il fuggitivo coordinerà sempre l'evoluzione di Matt, ne diventerà quasi il tutore (tra i due c'è sempre una subordinazione nell'asse dello sguardo), in una necessaria iniziazione alla violenza che, paradossalmente, rielaborerà e guarirà un passato di false cause e automatismi omicidi.
Tu sei migliore di me, ovvero più umano, dice Tobin a Matt.
Ecco il nocciolo di Safe House, molto essenziale nel passare in rassegna i meccanismi dello spy-movie prestando attenzione soprattutto ai conflitti psicologici del suo protagonista, tra il rispetto dei codici e la loro sovversione, tra le responsabilità etiche e sociali e la tutela di un privato (la fidanzata Ana) destinato inevitabilmente ad essere sacrificato, tra l'ingestibile ribalta eroica e l'esigenza dell'anonimato.
Daniel Espinosa, dal canto suo, non esita a dinamizzare la baracca grazie a uno sguardo fisico che rimane incollato ai suoi personaggi, prediligendo piani stretti e camera a mano. Lo spazio diventa così labirintico e caotico, riflesso di un'incertezza quasi paranoica, spesso incorniciato tra un perdersi nella folla (dove quest'ultima rimane ignara del tutto e si ciba di fenomeni collettivi lontani dalla verità come la protesta sindacale e la partita di football). Una presenza fisica che, sotto la fotografia un po' troppo estetizzante di Wood, viene trasfigurata nell'iperrealismo, quasi a voler marcare ancora di più il terreno mentale e di crisi identitaria messo in gioco, anche in circostanze di genere tipicamente introduttive come le riprese aeree. In questo caso specifico l'approccio non è banalmente narrativo, delineando una morfologia che rinforza il limbo tra la via da seguire (fallace) e l'emancipazione da essa.
Pur crollando in una chiusa speranzosa e troppo prevedibile in coerenza, Safe House guarda al resetting iniziato con The Bourne Identity e gli indica uno spiraglio per evolversi.
