Drammatico, Recensione

RUGGINE

TRAMA

Orribile quartiere “Gli Alveari” in una non meglio identificata città del Nord Italia. Un gruppo di bambini meridionali gioca indisturbato tra i rottami finché non arriva il nuovo pediatra…

RECENSIONI

Tratto dall'omonimo romanzo di Stefano Massaron, Ruggine diventa fondamento per comprendere una poetica basata sulle spinte emotive bestiali, sul peso della Rimembranza, sul disturbo dell'Assenza, impronte cristallizzate e riconducibili solamente a un unico (quanto eterno) luogo: la Periferia. La periferia dimessa e moralmente impoverita di Nemmeno il destino e quella più urbanizzata, ma ugualmente fagocitante di Pietro, ritorna nel passato storico di una generazione tutta italiana, ma purtroppo sempre (e troppo) uguale a se stessa. 

Molto meno letterario rispetto alla divisione in capitoli di Pietro, Ruggine ci rimbalza tra due stati temporali differenti:
IL PASSATO: L’infanzia violata. La frenetica corsa verso il Nord fiorente e industrializzato (?) diventa l’occasione “per giocare alla guerra”, per sublimare l’abbondanza dei rottami pasolinianamente a ridosso del Benessere – della città “vera” – trasformandoli in giocattoli, in pericolose trappole, addirittura in castelli. In un mondo industrializzato già finito in partenza, la curiosità infantile si tramuta in responsabilità morale, la fiaba classica – quella dell’uomo nero – prende le sembianze del  trauma identitario, la spensieratezza bambinesca si interrompe per lasciare spazio all’Assenza, al dolore per una nuova partenza (quella di Sandro). La mdp segue costantemente i corpi (come sempre molto importanti nel cinema di Gaglianone) quasi soffocandoli nella ruggine, enfatizzando un po’ troppo i primissimi piani di Timi, ma mai cadendo in manicheismi.
IL PRESENTE: “vite spezzate ricucite alla cazzo”... Gaglianone fallisce nella creazione dei personaggi del presente. Cinzia, Carmine e Sandro non sono più l’eco di una generazione sconfitta dalle menzogne, inerme nella rivolta, resa nella lotta contro un sistema che comunque non funziona, rimangono solamente involucri, simulacri del peggiore catastrofismo all’italiana (il divorzio di Accorsi che ripete al figlio roboticamente i dettami del padre-patriarca), dei luoghi comuni più riciclati (la sequenza che ha come riferimento il superenalotto con Mastandrea) dell’horror-vacui cinematograficamente italianissimo con una Solarino che a tutti i costi vuole “fare” la stramba. Il salto temporale perde di spessore, si deteriora concentrandosi sui clichés ripetuti all’infinito, feticci di un cinema italiano che purtroppo non riesce ancora a  emanciparsi.

Gaglianone fallisce nella costruzione del Presente, nella messa in scena di un mondo che nulla ha da dire e che anzi ritorna sempre con gli stessi contrassegni (i contrasti con le donne a cui viene ricordato che il femminismo è finito);  un’apatia fastidiosa e magniloquente (per non parlare dell’incontro sul metrò dopo i titoli di coda), che poco ha a che fare con la legittimità e la doverosità di una pellicola come I nostri Anni, che si muove attraverso il trauma – che non passa – ritornando alle ferite primordiali più presenti del presente stesso.