TRAMA
Roubaix. Il commissario di polizia Daoud con la recluta Louis la notte di Natale deve gestire le indagini sull’omicidio di un’anziana signora. Sono sospettate due ragazze indigenti e tossicodipendenti che vivevano vicino alla vittima.
RECENSIONI
Cineasta che da sempre ama seminare spunti autobiografici nella sua filmografia, Desplechin decide di eclissarsi forse come mai prima d’ora dietro l’impersonalità delle strutture di genere (il poliziesco), proprio nel film che già dal titolo parla della sua città, Roubaix, tante volte indirettamente evocate nelle sue opere. Queste strutture, tuttavia, le rivolta come un guanto, realizzando così un’opera sorprendentemente personale.
Roubaix, oggi, è una terra di nessuno. Come gran parte del profondo nord della Francia, è una città socio-economicamente assai depressa, spettrale, fatiscente, in stato avanzato di detroitizzazione, incapace di offrire prospettive che non siano quelle brutali e umilianti della microcriminalità. Il lavoro, dunque, non manca mai per il commissario Daoud, rimasto solo dopo il ritorno di tutta la sua famiglia nella nativa Algeria, e per Louis, fresco di diploma e appena trasferito in un ambiente troppo difficile per la sua ancora scarsa esperienza professionale. Stando a fianco di Daoud, tuttavia, Louis tocca con mano quanto l’esperienza professionale sia meno importante del cosiddetto “fattore umano”, che il commissario padroneggia ai limiti dell’infallibilità. Concessioni altrettanto prevedibili alle coordinate di genere, sono poi il fatto che l’unica persona su cui la sua magia non faccia effetto è proprio un membro della sua famiglia (un nipote facinoroso ospite abituale delle patrie galere), e il chiudersi a imbuto nella seconda metà, tipico dei film giudiziari, su di un singolo caso che si proverà a risolvere attraverso una serie di interrogatori; nella fattispecie: un caso di furto con omicidio ai danni di un’anziana, da parte di una ragazza madre e della sua amante.
Qui, tuttavia, non c’è nessun processo. Desplechin non ambienta il suo dramma in un’aula di tribunale – spazio che avrebbe suggerito una presenza forte delle istituzioni che è invece impensabile in quel far west che è oggi Roubaix. No: Desplechin sceglie invece gli uffici della questura, e ne fa uno spazio sempre più intimo, portando il suo sguardo sempre più fisicamente a ridosso dei protagonisti, tanto le due accusate quanto i poliziotti che cercano di ricostruire la verità. Ricostruzione che sarà possibile solo andando a toccare le zone nevralgiche della psiche delle due sventurate, e soprattutto i vicoli ciechi, i presupposti inconfessati e le opache dinamiche di potere del loro rapporto.
Insomma: se Daoud riesce nel suo intento, è perché nella lunghissima (quasi metà film) scena dell’interrogatorio incrociato alle due donne, lui sembra, più che un poliziotto, una figura a metà tra lo psicoterapeuta e l’acting coach: uno che sa penetrare nell’interiorità dei suoi “attori” affinché tirino fuori quello che devono. Ecco dunque che gli uffici della questura sono prove semilibere per quell’autentico psicodramma teatrale che sarà la ricostruzione sulla scena del delitto da parte delle colpevoli stesse. La scena teatrale è, da decenni, lo spazio preferito da Desplechin, anche quando non ce n’è più traccia visibile perché disciolto completamente nel cinema: è lo spazio in cui i nodi interiori vengono al pettine, e le nevrosi si trasformano in energia produttiva. In termini letteralmente economici, il cinema di Desplechin è fatto quasi sempre di questa ricca produttività delle nevrosi, in cui ogni nodo irrisolto si trasforma, ogni volta che ci si sbatte contro, in proficua, vulcanica, creativa ramificazione. Anche Roubaix, une lumière fa mostra di questa ricchezza, vista la sua intelligentissima costruzione narrativa: inizialmente, al caso giudiziario principale se ne affiancano altri mollati a metà a favore del lungo interrogatorio, ma che poi si risolvono di colpo quasi miracolosamente una volta risolto quello principale, appena prima della fine. Perché? Per ribadire che il “fattore umano” è il centro intorno a cui gravita, per definizione, qualsiasi indagine, e che quando c’è quello si è ben più che a metà dell’opera, e tutto finisce per trovare posto pressoché automaticamente – ma non solo: con la geniale scena finale (che sarebbe un delitto rivelare), questo ottimismo viene bilanciato dall’osservazione che questo “fattore umano” è non solo la chiave di tutto, ma anche, e paradossalmente, un pozzo senza fondo su cui non si può mai davvero fare affidamento, perché inesauribile, e dunque privo di garanzie sulla sua controllabilità. È questo che piace a Desplechin di quel processo di scavo dal dentro al fuori che si chiama, da secoli, “teatro”: il suo essere potenzialmente infinito. Le sfumature da sbozzare, possono anche non finire mai.
Ed è per questa stessa ragione che con questa sua prova più recente Desplechin ha dimostrato che il suo cinema, capacissimo di far mulinare logorroicamente la sua potenza espressiva nel vuoto anche all’infinito, funziona particolarmente bene quando costretto dalle maglie tipicamente rigide di un genere ultracodificato come il poliziesco. E lo dimostrano proprio la quantità e l’acutezza delle invenzioni di regia: il chiasmo costruito tra i due detective e le due accusate (ambo le coppie caratterizzate da un polo forte e uno debole, a contatto incrociato); il rifiuto del facilissimo espediente (assai inflazionato nel poliziesco) della macchina a mano a suggerire concitazione, sostituito da un montaggio nervoso ma nitido, con cambi d’angolazione “pesanti” laddove gli scarti di senso sono maggiori; l’uso di brevi scene di raccordo puramente informative per permettere alle altre di veder dilagare lo spazio dedicato ai personaggi… Al punto che ci si augura caldamente che questo virtuosistico esercizio di legare le esigenze dell’Azione e quelle dell’Introspezione (con il Ritmo a fare da cinghia di trasmissione) non rimanga, nella filmografia futura del regista francese, un caso isolato.