La storia della terribile banda della Magliana, costituitasi alla fine degli anni Settanta per iniziativa di alcuni giovani sbandati di piccolo taglio e in pochi anni divenuta padrona dei traffici criminali della capitale.
Una creatura insolita
La versione televisiva della fortunatissima opera letteraria di Giancarlo De Cataldo è stata prodotta da Sky Cinema, Cattleya e R.T.I e trasmessa dal canale satellitare in due stagioni, nel 2008 e nel 2010, per poi passare in chiaro su Italia 1 e su Iris. Romanzo criminale. La serie è un prodotto decisamente atipico all’interno del panorama della fiction nostrana. Uno dei pochissimi ad aver conquistato, contemporaneamente, l’apprezzamento da parte di un’audience spesso sfuggente, popolare e colta, decisamente giovane, ed anche un unanime consenso di critica – c’è chi l’ha definita l’unica fiction italiana di cui andare fieri. La serie sfugge infatti ai canoni estetici e narrativi della produzione televisiva italiana: vanta una regia virtuosa, non si appoggia a nomi noti (superflui, di noto c’è già il “marchio” Romanzo criminale), punta su un realismo crudo punteggiato da parentesi liriche, ha una stretta continuity incurante di eventuali distrazioni da fruizione televisiva, rifugge qualsiasi tentazione consolatoria.
Come se non bastasse, si tratta di una crime story (i protagonisti sono i criminali), genere che nella tv italiana affollata di carabinieri e poliziotti, rigorosamente in chiave buonista e celebrativa, ha trovato raramente spazio (l’esempio recente più famoso è Il capo dei capi, saga su Cosa nostra). La fiction nostrana – cinema compreso – non ha mai dimostrato grande voglia né capacità di raccontare i “cattivi” affondando l’obiettivo nell’abisso delle anime nere e comprendendone la complessità. Tranne qualche eccezione, l’Italia sforna e coccola antieroi – benché simpatici – non villain di più difficile digestione. Anche per questo la serie è una creatura insolita. Romanzo criminale è dunque l’appassionante “epopea” di una banda criminale, raccontata a partire dal momento che precede la sua costituzione, nella sua scalata al potere e nella sua graduale dissoluzione. Una cavalcata tra gli anni Settanta e Ottanta (con coda ai giorni odierni) nella città di Roma e nell’Italia tutta, in cui gli avvenimenti storici rivestono grande importanza e si intrecciano – come realmente accadde – con le vicende dei protagonisti. Ma è soprattutto la storia degli uomini che hanno composto la banda, messi a fuoco come singoli individui e come gruppo.
Il romanzo, il film, la serie
In principio fu il magistrato e scrittore Giancarlo De Cataldo ad intuire le potenzialità narrative delle vicende della famigerata banda romana della Magliana ed a trasformarle in un’affascinante opera letteraria capace di avvincere come solo la finzione sembra poter fare e al tempo stesso di inquietare in quanto reale. Il merito fondamentale va quindi riconosciuto all’abilità narrativa di De Cataldo ed alla sua capacità di realizzare un mix perfetto di realtà e finzione. Lo scrittore ha infatti selezionato e valorizzato alcuni protagonisti principali delle vicende reali, correggendone tratti e biografie per necessità letterarie e facendone figure memorabili. Sono esempi di questa abilità la scelta di focalizzare l’attenzione su Libanese, Dandi e Freddo, quella di rendere il primo scapolo, l’invenzione di un poliziotto in particolare come grande avversario della banda e di personaggi femminili come Patrizia e Roberta che arricchissero la storia. Poi è arrivato Michele Placido, che ha tratto dal libro una pellicola per il grande schermo. Anche in questo caso un successo, sebbene il film vincesse soprattutto per la forza del suo cast (Pierfrancesco Favino, Kim Rossi Stuart, Claudio Santamaria, Stefano Accorsi, Riccardo Scamarcio, Jasmine Trinca) e per la leggenda ormai sorta intorno a Romanzo criminale. Il film di Placido non possedeva infatti la potenza del libro, non solo ma anche per la difficoltà di concentrare una vicenda tanto articolata nell’arco di due ore. Infine, apparse evidenti le potenzialità della materia ed il gradimento del pubblico, è arrivata l’intuizione della serie televisiva. Michele Placido ha partecipato anche alla serie, col ruolo di consulente artistico, ma il regista e la squadra degli sceneggiatori hanno fatto un lavoro del tutto indipendente rispetto al progetto cinematografico. E clamorosamente superiore. Si può affermare che risulta quasi impossibile vedere o rivedere il film dopo aver guardato la serie. Il telefilm si rivela subito il genere più adatto per sviluppare la trama ricca ed articolata di Romanzo criminale: ha il respiro necessario per mettere a fuoco le personalità (vale per tutti, ma si pensi soprattutto al Dandi, evanescente nel film), utilizza la serialità per cadenzare al meglio l’evoluzione degli eventi e per sfruttare al massimo la suspense, consente di gestire i tanti personaggi e le tante implicazioni storiche e sociali. Una ricostruzione meticolosa immerge pienamente nel periodo storico narrato e lo rende protagonista: costumi, acconciature, automobili, particolari (Piazza del Popolo ancora non pedonale) sono perfetti. Ad essi si accompagna una colonna sonora composta dai successi dell’epoca, in molti casi intonati agli umori ed agli accadimenti delle diverse scene: “You make me feel”, “Figli delle stelle”, “Pazza idea”, “Alba chiara”, “Gianna”, “Tutto il resto è noia”, “Disco inferno”, “Goodbye stranger” ecc. La televisione, la radio, le immagini d’epoca insieme ad alcune scene girate sul posto rievocano alcuni degli eventi più significativi. Le vicende dei protagonisti si intrecciano alla contestazione giovanile, al rapimento Moro (alla banda venne chiesto, in un primo momento, di contribuire a ritrovarlo), al terrorismo nero degli anni di piombo (alcuni componenti interagirono, sembra esternamente, con i terroristi di destra). Fanno da sfondo ai fatti della banda la strage alla stazione di Bologna, la vittoria dei Mondiali di calcio dell’82, l’inizio dell’incubo dell’AIDS. La banda interagisce inoltre costantemente con Cosa nostra, Camorra e servizi segreti deviati, con legami d’affari, favori reciproci, sostegno “a buon rendere”, offrendo un nitido spaccato dei meccanismi del potere che hanno dominato e dominano il Paese. Il telefilm ha la possibilità di mettere in campo senza fretta questo sconfinato materiale e lo fa con tutti i mezzi necessari divenendo il viaggio attraverso un’epoca drammaticamente vicina alla nostra.
Le due stagioni
12 puntate la prima stagione, 10 la seconda. La prima verte sulla nascita della banda e sulla sua scalata al potere criminale nella capitale. La storia parte dall’unione di due batterie di delinquenti romani finalizzata alla costituzione di una banda criminale dalle immense ambizioni: conquistare Roma. Un’impresa che non aveva precedenti e che ai più sembrava impossibile, perché “Roma nun vo’ padroni”. L’intuizione e la determinazione del Libanese, punto di riferimento per la banda e nei fatti capo, riescono ad assemblare e motivare soggetti eterogenei. L’originalità del progetto risiede anche nell’idea di una banda dall’organizzazione “democratica”, in cui tutti sono capi. Partendo da un sequestro di persona che assicura una cospicua somma di denaro, la banda si muove alla conquista del traffico di stupefacenti, stipulando difficili alleanze (con la malavita organizzata) e trucidando senza pietà gli avversari (come pochi osano fare al tempo a Roma). Sempre più potenti e temuti, i nuovi criminali capitolini guadagnano gradualmente terreno, fino a fronteggiarsi direttamente col grande nemico incarnato dal Terribile. Parallelamente, i loro crimini vengono indagati da un poliziotto più intuitivo degli altri, il primo ad intravedere l’operato di una vera e propria banda organizzata, costretto però a scontrarsi con l’ottusità dei superiori e con gli appoggi potenti della banda. È con lui che prende forma il triangolo che terrà banco fino alla fine della serie e che coinvolge il Dandi e la prostituta sua compagna Patrizia.
La prima stagione descrive l’ascesa all’apice del potere e della ricchezza, ma contiene già evidenti i germi del declino, con i primi significativi screzi tra i componenti e soprattutto con la sempre più incontrollabile perdita dell’equilibrio di alcuni di loro, su tutti il Libanese, colto da delirio di onnipotenza. Il primo ciclo di puntate si conclude con la decisione del Freddo di lasciare la banda e trasferirsi in Sudamerica e con l’assassinio del Libanese. Con questo evento destabilizzante si apre il secondo ciclo di episodi, che narra la lotta della banda per la sopravvivenza dopo la perdita del capo, la ricerca dell’assassino e della vendetta, le dinamiche per l’affermazione del nuovo leader. Fin dall’inizio saltano gli equilibri mantenuti sia pur a fatica dal carisma del Libanese ed emerge l’insanabile incompatibilità tra le personalità troppo diverse dei due potenziali nuovi leader, il Freddo e il Dandi. Il secondo più scaltro e calcolatore, pronto a consolidare i legami con i poteri forti, in particolare la mafia, verso i quali al contrario il Freddo manifesta disprezzo ed allergia. Entrambi rivelano presto la propria inadeguatezza a sostituire il Libanese. Il Dandi perché troppo egoista nella propria ambizione, incapace di restare leale nei confronti degli altri componenti della banda. Il Freddo per la refrattarietà a scendere a compromessi, benché strategici come la logica criminale richiede, ma anche perché non rinuncia mai del tutto al sogno di evadere dalla vita criminale e costruirsi un’esistenza alternativa.
La seconda stagione è per questo una corsa verso l’autodistruzione, un rapido declino umano, relazionale, sociale, punteggiato da un numero impressionante di morti e tradimenti. Due parti, ascesa e declino, dunque. In realtà si tratta, come nel romanzo, di un’unica storia ed un’unica stagione interrotta a metà. Il flashforward ai giorni nostri che apre la prima stagione si conclude nell’ultima puntata della seconda confermando l’unitarietà di una storia divisa in due dalla morte del capo della banda.
Le due stagioni sono accomunate dal medesimo stile, dalla stessa cura nella scrittura e nella realizzazione. Sia per chi si limita a guardare che per chi si impegna a dare una valutazione, la prima è più esaltante. Le prime dodici puntate raccontano qualcosa che nasce e cresce, le altre un inarrestabile declino e necessariamente frustrano lo spettatore con una sequela ininterrotta di tradimenti, delusioni, profondo senso di disfacimento. In una prospettiva non solo di fruizione ma anche di critica, si può aggiungere che la prima parte è più poetica oltre che “gloriosa”. In secondo luogo, nella seconda stagione si avverte come una voragine la mancanza del vero protagonista, il personaggio più carismatico e probabilmente meglio caratterizzato. Nonostante il valido lavoro fatto nel secondo ciclo di puntate su altri personaggi – in particolare l’ottima messa a fuoco del Dandi, nella sua evoluzione, il coerente approfondimento del Freddo, ma anche l’amara maturazione e degenerazione di Scrocchiazzeppi e Fierolocchio – è difficile non sentire la mancanza della ferocia infelice del Libanese, della sua ala protettiva sulla banda fatta di ambizione arrogante e dolorosa solitudine. Anche per questo gli autori non lo fanno mai uscire del tutto di scena, non solo per il nodo da sciogliere del suo assassinio e della conseguente vendetta, ma anche per le tangibili conseguenze della sua assenza e per il ricordo sempre vivo negli altri personaggi, che arriva a materializzarsi in alcune apparizioni “fantasmatiche” come coscienza del Dandi. Se si pensa alle scene memorabili della serie, ci si accorge che sono inevitabilmente più numerose nel primo ciclo di puntate, a conferma della sua maggiore capacità di coinvolgimento emotivo. Meritano di essere menzionate: la partita a pallone sulla spiaggia, addio definitivo alla vita da ragazzi normali, l’ultima volta in cui Libano, Freddo e Dandi utilizzano il loro nome di battesimo; la discussione musicale in macchina, sulle note di “You make me feel”; l’uccisione del Terribile contemporaneamente al matrimonio di Scrocchiazzeppi, con Franco Califano (interpretato da Fiorello) che canta “Tutto il resto è noia”; il Libanese che incendia la sua roulotte; il Freddo e Roberta che si innamorano al Luna Park; l’arrivo sotto la pioggia dei componenti della banda davanti al Libanese assassinato. A queste si aggiungono, nel secondo ciclo di puntate, la cacio e pepe mangiata in piena notte dalla banda accanto alla bara trafugata del Libanese e l’uccisione di Buffone da parte del Freddo.
La mitizzazione
Il telefilm Romanzo criminale ed i suoi personaggi sono divenuti oggetto, in particolar modo nella capitale, di una “mitizzazione” decisamente insolita, che ha prodotto persino merchandising – una serie di accendini, alcuni dei quali con nome ed immagine di un personaggio del telefilm: Libano, Freddo, Bufalo, Dandi, Patrizia – evento più che raro, se si escludono le produzioni con target infantile e adolescenziale. È la serie stessa ad operare una sorta di mitizzazione dei suoi personaggi principali e della banda in generale. Il processo era in verità iniziato già con il romanzo e di riflesso con il film, tanto che “Romanzo criminale” era diventato un marchio di sicuro appeal e Libanese e Freddo due eroi negativi (o meglio, eroi neri) di grande carisma. Ad un livello immediato e superficiale il fascino dei protagonisti deriva, nella serie, da uno spudorato carico di coolness regalato loro dalla sceneggiatura. Come balza agli occhi fin dalle primissime scene il modo di esprimersi dei personaggi, spiccio ed efficace, è improntato al principio “ogni frase una sentenza”: “Piàmose Roma”, “La liquidazione noi la damo in piombo”, “’Sta banda nun se scioglie con par de vaffanculo”, “A Roma noi gli ordini nun li piamo, li damo”, “Avémo svoltato un invito a pranzo, ma tocca vestisse pesante”. Sfrontatezza accattivante, piglio deciso e sprezzo del pericolo completano la cornice esteriore. Andando più a fondo, emerge con evidenza come la carriera criminale rappresenti in questa storia una forma di riscatto sociale e di affermazione personale. Inoltre, vengono presentati personaggi sfaccettati in cui è più facile identificarsi, comunque dotati – almeno i protagonisti destinati a diventare più popolari – di un codice morale (seppur singolare) che comprende la sacralità di alcuni affetti (madre, fidanzata) e, soprattutto, il senso del gruppo, la difesa degli altri componenti della banda, l’amicizia, il coraggio di rischiare in prima persona, la ribellione contro i poteri costituiti. Quasi mai vengono mostrate esplicitamente le vittime innocenti dei delitti della banda (una delle poche eccezioni sono gli sfollati che Libanese fa entrare strumentalmente e poi caccia dalle case che intende acquistare). Gli avversari sono generalmente spregevoli, spesso criminali che hanno tentato di ingannarli o di sopraffarli. In molti casi si tratta anzi di vendetta per un sopruso subito (è il caso del Terribile). Alla fine quasi tutti tradiranno tutti, con l’eccezione quasi esclusiva dei due grandi protagonisti: il Libanese ed il Freddo. Il primo negli ultimi giorni prima dell’uccisione amareggiato dai tradimenti scoperti, il secondo che nei fatti rinuncia ad una nuova vita, già programmata, prima per vendicare il Libanese e poi per evitare la dissoluzione della banda. Dandi non sarà mai “eroe (negativo)” e non si farà mai amare proprio perché egoista e subdolo, pronto a sacrificare i compagni. Il Freddo è forse il personaggio che commette personalmente il maggior numero di omicidi, persino di componenti della banda, ma viene percepito come il più giusto ed il più propriamente “morale” del gruppo (“A me per ammazzare qualcuno serve un motivo”, “Le donne nun se pagano”). Sia Freddo che Libano godono poi di una specie di saggezza del comando che, congiunta all’iniziativa ardimentosa, ne fa leader ideali. È improbabile che uno spettatore del telefilm riesca ad immedesimarsi nel commissario Scialoja ed a sperare che incastri il Libanese o il Freddo. Benché il poliziotto dimostri intuitività e perseveranza, il suo personaggio è destinato a restare sconfitto anche nei sentimenti del pubblico: è senza passato, senza bisogno di riscatto (nonostante il modo in cui lo trattano all’interno del dipartimento di polizia) e soprattutto troppo spesso irresoluto, indeciso. Il suo ruolo è necessariamente quello del non protagonista.
Il talento prima di De Cataldo e poi degli autori della serie sta nell’aver saputo dare un forte appeal narrativo alle figure principali della storia senza nasconderne lati oscuri ed atrocità, puntando al contrario su contraddizioni e complessità. Questi uomini sono sbruffoni e violenti, tutti cocaina, Rolex e macchinoni, prostitute. Per quanto sia stato smussato il fascismo del Libanese (nella realtà aveva in casa un busto di Mussolini), resa quasi simpatica la grezza brutalità del Bufalo, ammantata di fascino alieno l’introversione del Freddo, i delitti di questi uomini sono mostrati senza sconti. Come poco a poco si svela, le vere vittime sono le loro stesse esistenze e quelle delle persone che amano. Se mitizzazione c’è, è di un genere che non assolve e non dovrebbe invogliare all’emulazione. In Romanzo criminale la delinquenza è una scelta di vita che non rende quasi mai felici e che comunque entro pochi anni porta all’autodistruzione (abuso di stupefacenti, perdita dell’equilibrio), all’arresto o, più spesso, alla morte. Quindi a bruciare la propria esistenza. L’esempio è dato dal mito giovanile del Libanese, che egli incontra per caso in carcere, anziano, solo, inerte, degno di compatimento. Condannato non soltanto all’ergastolo ma alla perdita degli affetti e del potere. L’ebbrezza di potere non dura che pochi istanti in esistenze dominate dalla tragedia. L’ambiente criminale è fatalmente popolato da “traditori di tutti” (i tradimenti piccoli e grandi saranno alla base della dissoluzione della banda). Una incolmabile solitudine pervade tutti i personaggi, anche all’apice del potere (anche da qui l’empatia dello spettatore, deluso come Libano quando viene lasciato solo, ferito come chiunque sia stato tradito in qualche forma da un amico). Molti dei personaggi sono attraversati dalla tentazione di una vita diversa, che si rivela però sempre impossibile, definendo chiaramente quello criminale come un percorso senza ritorno. Freddo perde così Roberta, simbolo della vita pulita e normale che non potrà mai più avere, il Libanese perde sua madre, che non vuole farsi complice silenziosa della sua scelta di vita, Patrizia torna da Dandi, pur disprezzandolo, incapace di rinunciare a ricchezza e privilegi assaporati al suo fianco. In Romanzo criminale la mitizzazione, funzionale alla presa sul pubblico, è quindi di singoli personaggi – grandi figure tragiche con le mani insanguinate –, non dei criminali. Il loro essere criminali ne fa invece degli sconfitti. Non si chiedeva, del resto, a Romanzo criminale, come a nessuna opera, di essere edificante, ma di cogliere la complessità di scelte estreme e devianti, di rendere verosimili esperienze e vissuti senza banalizzarli.
Il cast
Quello di Romanzo criminale. La serie è un cast che inceppa tutti i vecchi ragionamenti: per anni in Italia si è lamentata la mancanza di giovani talenti, si è pianto guardando al passato coi suoi grandi attori. Perché erano così bravi, perché non ce ne sono più così bravi? Forse la risposta era semplice: venivano dalla gavetta del teatro. Non a caso questo manipolo di giovani, materializzatosi dal nulla, viene dal teatro, e sono tutti memorabili. Sicuramente beneficiano del fatto di poter impersonare personaggi ben scritti, ma la loro bravura è innegabile. Il proverbiale bassissimo tasso di divismo della nuova generazione è problema anche di talento e di buona scrittura delle opere, quando ci sono questi due elementi è abbastanza facile che un attore lasci un segno duraturo. Lo straordinario Francesco Montanari (sorprendente nei suoi 24 anni), smorfia sul volto che non si dimentica e carisma da grande attore, è il degno capitano della squadra. Anche lontano dal ghigno del Libanese, ha le carte in regola per farsi valere, come ha già dimostrato adattandosi perfettamente al registro comico-macchiettistico nel peraltro dimenticabile Oggi sposi (con il suo maneggione arricchito e volgarotto costituiva la sola ragione per vedere la pellicola). Ben poco si può eccepire anche sull’interpretazione di Alessandro Roja–Dandi. La serie espone una galleria vastissima, nei grandi come nei piccoli ruoli. Facce comuni come quelle di Scrocchiazzeppi e Bufalo che con grande naturalezza passano dalla battuta scherzosa al cialtronismo alla violenza implacabile, e sommi caratteristi come Marco Giallini (solitamente comico), un Terribile impeccabile. Tutti da ripescare, si spera.
Il giudizio
Dire che Romanzo criminale è l’unica serie televisiva italiana all’americana significa, più propriamente, che è realizzata con il massimo della professionalità sotto ogni aspetto, con un doppio sguardo alla qualità ed all’intrattenimento (qui, poi, è la qualità a dare ottimo intrattenimento), e finalmente liberi dalle catene dello stile “televisivo”, dall’obbligo del consolatorio e rassicurante, dal politicamente corretto che da noi equivale nei fatti alla deferenza. Romanzo criminale punta sull’azione e la suspense quanto sui dialoghi e sull’introspezione psicologica. Il ritmo si alterna ai momenti di riflessione, all’approfondimento, alla parentesi lirica, in un raro equilibrio. Fin dall’inizio si impone la scelta del realismo: verosimile turpiloquio, corpi sgraziati, sesso non patinato. Il realismo non è solo estetico e di forma, ma anche di sostanza, nelle contraddizioni e nelle ombre dei personaggi, dei rapporti. Il fenomeno criminale “banda della Magliana” viene raccontato nei tempi ideali, divenendo perfetta parabola. Su questo piano ha qualche pecca solo il finale, che deve condensare troppi fatti e risulta a tratti poco chiaro o lacunoso: per chi non ha letto il romanzo risulta privo di senso l’incontro tra il Secco e Patrizia – destinati a diventare amanti – e nebuloso il futuro di Scialoja, cui Di Cataldo fa tradire completamente ciò che era stato, mentre nella serie sembra miracolosamente ed incomprensibilmente beneficiato dalle eminenze grigie. Molto probabilmente ciò è conseguenza della precisa volontà di non trascinare la storia dopo la fine dei suoi protagonisti e di chiuderla quando è ancora elevato il coinvolgimento emotivo. Proprio nella sorprendente capacità di coinvolgimento emotivo è la grandezza di questo prodotto intriso di amarezza, dominato dal senso di solitudine. La serie si distingue per la problematicità del materiale presentato, per la capacità di dividere, di muovere l’emotività in modo complesso, scompaginando le distinzioni precostituite tra bene e male. Soprattutto attraverso una umanizzazione dei devianti mai schematica o didascalica, che stimola fascinazione ed orrore, mai estraneità. La qualità della produzione meritava diffusione anche maggiore: Sky rimane di nicchia, la seconda serata di Italia 1 (ed ora il digitale in chiaro) limita la visibilità del telefilm.