TRAMA
La famiglia lucana Parondi naviga in cattive acque economiche: madre e quattro figli ne raggiungono allora un quinto a Milano. Rocco fa il boxeur, Simone s’innamora di una prostituta e inizia a rubare.
RECENSIONI
Mentre, in cinque capitoli, descrive tutti i fratelli (pur privilegiando Rocco e Simone), con tanto di nome sovrimpresso e parallelo con le dita della mano, Luchino Visconti restituisce l’anima e le tradizioni di un Meridione per cui la famiglia è sacra, da anteporre anche all’Amore e alla Legge. Lo contrappone a un Nord più “moderno”, in cui pare riporre più fiducia per l’evoluzione dell’umanità (per quanto Milano sia fotografata anche come fredda e inospitale): una tragedia corale greca in cui dà prova delle sue grandi capacità realistiche (dostojevskiane) nell’imprimere su pellicola moti dell’animo e senso dell’agire, mentre a livello drammaturgico preferisce sempre affidarsi ai codici di finzione del melodramma e, a livello figurativo-formale, trasfigurare la materia dura e toccante in un cinema di classe ed eleganza, epico, decadente e mitologico. Poi c’è la figura di Rocco, così incredibile nella sua bontà da rasentare il cristologico (infatti, c’è anche un “Giuda” traditore), tipicamente viscontiana nell’essere inadeguata, amabile vittima di se stessa. La sceneggiatura s’ispira ai racconti di Giovanni Testori (‘Il ponte della Ghisolfa’), ma il titolo richiama il manniano “Giuseppe e i suoi fratelli” (con altri emigrati, ma in Israele). La censura s’è abbattuta, fra le altre, sulla scena dello stupro, durissima: del 2015 la versione restaurata.