TRAMA
La vita di Tomas, scrittore in crisi, è sconvolta da un incidente.
RECENSIONI
D(io)RAMA
Every Thing Will Be Fine nasce da un intento sperimentale: sondare le possibilità della stereoscopia, solitamente usata nei blockbuster, in un ambito diverso, quello del film intimista, per esaltare un aspetto che vi attiene profondamente, quello emotivo. Per farlo Wim Wenders si affida a uno script che del genere che intende sondare ha tutti gli elementi bene in evidenza, presentando paradigmi chiari, riconoscibili, delineati. Se l’inizio è potente e ha la tensione del thriller - con quel paesaggio immerso nella neve, la salita verso la casa, così breve, ma la cui fine pare irraggiungibile (scena che si rivelerà primaria per il piccolo Christopher), e il confronto con l’agghiacciante verità - quello che innesca è un campionario di figure del melodramma, una raccolta ponderata di canoni, chiamati in causa per constatarne tenuta, funzionalità e possibilità espressive ulteriori nel confronto con l’inusuale tecnica prescelta per esperirli. Every Thing Will Be Fine è un diorama, un’installazione museale, un’opera dimostrativa. Didattica. Le continue messe in quadro dei personaggi (caratteri sottovetro, sentimenti in esposizione, figure tragiche raggelate in una posa) non fanno altro che rimarcare, attraverso la dichiarata funzione illustrativa, il carattere metadiscorsivo del film. Fino alla fine, quando la consapevolezza del doppio livello rappresentativo si fa palese: perché il film è già concluso quando James Franco (lui, non il personaggio) fissa la camera e, sorridendo allo spettatore, chiude l’esperimento.
Così lontano, così vicino
Il 3D, in un film di questo tipo, esaltando le presenze umane, porta Wenders a sottrarre rilevanza ai dialoghi, riducendoli a esposizione di formule standard; le dinamiche sono più importanti di quello che si dice, che è basica convenzione di genere: insomma, le dissolvenze incrociate che sembrano far condividere uno spazio emozionale a Tomas e Kate, mentre sono al telefono, rilevano, emotivamente - dicendo di una distanza fisica e, nello stesso tempo, di una vicinanza intima -, più di quanto viene detto dai personaggi. Lo stesso lavoro di economia espressiva il tedesco lo svolge sul piano recitativo (WW: «Il 3D è una grande sfida per gli attori perché queste camere sottolineano qualunque cosa [...]. La camera 3D spinge gli attori a essere piuttosto che a recitare perché evidenzia brutalmente ogni minima esagerazione. È stata la ragione per cui ho fatto particolare attenzione a che gli attori avessero soprattutto una forte e naturale presenza. La recitazione di James Franco è estremamente minimale»): attraverso l’interpretazione interiorizzata Wenders vuole, insomma, conferire spessore al personaggio operando soprattutto al livello della composizione visiva.
Così, se il 3D, essendo quasi sempre usato in film d’azione o altamente spettacolari, finisce con appiattire personaggi e ambienti in nome del dispositivo da esaltare, l’inversione operata dall'autore vorrebbe, al contrario, dare rilevanza a figure (la ricorrenza dei volti), oggetti (un taccuino in un mare di pulviscolo, un albero, un disegno), location (la casa di Kate, quella di Tomas, il suo giardino, i paesaggi), in considerazione della rilevanza che tali elementi hanno nel filone frequentato. Senza scavare nei luoghi oscuri, a svelare cose, il regista preferisce, insomma, per quel senso di dimostrazione di cui si diceva prima, operare sulle evidenze, attraverso un impianto visivo calcolatissimo, movimenti di macchina tutti ponderati (le vertigini dei ricorrenti travelling, anch’essi da leggersi in chiave empatica con gli umori e le tensioni del film), scivolando il suo sguardo sulla superficie mélo: quindi si attraversano classicamente tutte le stagioni, tingendole di cromatismi sirkiani (James Franco è Rock Hudson: il bello che fa le facce e che non invecchia), si ricorre a una struggente colonna sonora in cui trionfano gli archi gonfi di lacrime di Alexandre Desplat, si presentano situazioni leggibili all’istante (Kate che disegna un fiore appassito).
In questo quadro decisiva è la collaborazione - cercata e ottenuta - con Benoît Debie, il direttore della fotografia di Fabrice Du Welz e Gaspar Noé, qui al debutto in 3D, prima ancora del capodopera Love.
3D-onne
La stessa storia narrata nel film riflette sulle possibilità della creazione artistica e rispecchia metaforicamente il lavoro di realizzazione. Come quella di Wenders è un'applicazione di un genere e dei suoi parametri in ambito sperimentale, allo stesso modo il protagonista Tomas, scrittore, applica quello che gli accade (l'esperienza traumatica dell'uccisione accidentale di un bambino) in un ambito artistico (il suo romanzo), constatando come quella sostanza drammatica funzioni una volta convertita in termini letterari. Persino il suo tentativo di suicidio è la mera attivazione di un modello (personaggio torturato dal suo sentirsi responsabile di una tragedia prova a togliersi la vita), senza conseguenze fatali (la dose ingerita è calcolatamente innocua): è quella di Tomas, insomma, una messa in scena del dolore da riportare convenientemente nel discorso letterario. Lo scrittore sfrutta la disgrazia, come il regista sfrutta il dramma: a scopi artistici. E commerciali. E, a forzare le cose, il suo tormento è visto nelle tre dimensioni (3D) diverse dei diversi rapporti che l'uomo intrattiene con tre donne: la prima, Sara, con la quale è in crisi; la seconda, Kate che lo perdona e a cui Tomas fa una confessione decisiva: non può avere figli (lanciata lì e mai ripresa, tale rivelazione è la chiave della storia, un fatto che getta luce su ciò che abbiamo visto - la relazione problematica con Sara - e vedremo - il legame con la piccola Mina, ma non solo); la terza, Ann che gli rimprovera freddezza e calcolo.
Ogni Cosa Andrà Bene
Così Ritorno alla vita non è affatto, come si è detto, un film sul senso di colpa, ma un film sul come rappresentarlo nell'ambito dei presupposti teorici sopra delineati (fuori dal film: la pratica cinematografica; dentro al film: la pratica romanzesca): il colpevolizzarsi si rivela infatti del tutto ipotetico, un crisma evocato per puro esercizio di maniera e dissolto in un battibaleno. Infatti il ping pong dell'attribuzione delle responsabilità (Tomas che guidava l'auto e parlava al cellulare? Kate che non ha richiamato i figli a casa nonostante fosse tardi?) lo si risolve con un pragmatico, manualistico strategemma: la colpa è di Faulkner, scrittore troppo bravo per interromperne la lettura e troppo coinvolgente per consentire di fare il proprio dovere di genitore. Quindi il rogo è per le pagine di Luce d'agosto (rito per il quale non a caso Kate vuole vicino a sé Tomas, dovendo essere liberatorio per entrambi): quelle fiamme, che bruciano ogni reciproco rimorso, portano al quadro successivo, alla pagina seguente, al nuovo paradigma da illustrare (comincia un'altra storia in cui Christopher, cresciuto, vede ossessivamente Tomas, uomo senza figli, come figura mentorial-paterna; in parallelo significativo: il declino del padre dello scrittore - Patrick Bauchau, stupendissimo -).
Per questi motivi non si può analizzare Ritorno alla vita prescindendo dalla scelta del regista di realizzarlo in 3D, dalla conseguente necessità di vederlo in quella versione e del suo essere fondamentalmente un tentativo, un azzardo, una scommessa (dunque, incrociando le dita, il titolo è beneaugurante anche al secondo livello: Every Thing Will Be Fine, Ogni Cosa Andrà Bene [1]). A Wenders, al di là dei temi che tocca, delle riflessioni più o meno complesse che le sue opere propongono, alla fine interessa in primo luogo creare cinema, rimanere attaccato al discorso filmico in termini di proposta e non di mera rimessa. Quindi, gliene va dato atto: può sbagliare (anche clamorosamente), ma, vivaddio, rischia sempre qualcosa.
[1] WW: «Béla Balázs ha detto: 'Il cinema è capace di garantire l'esistenza delle cose'. Questa è la principale ragione per la quale il nostro titolo ha everything scritta in due parole, Every Thing: ogni singola cosa deve andare meglio per Tomas, Christopher e Kate.»
Ipse Dixit
«Nella nostra epoca di immagini spazzatura, dove ne circolano troppe realizzate senza alcun criterio, sono soprattutto i pittori e certi fotografi a restituirmi la sensazione che abbia davvero un senso fare quello che amo e che debba fidarmi del mio senso dello spazio e dell'inquadratura».
Summer Evening, Edward Hopper, 1947
Interior with a young woman weeping, Vilhelm Hammershø, 1906
Her Room Study, Andrew Wyeth, 1963
WW: «In un certo senso, Wyeth è per me nella pittura quello che Yasujiro Ozu è nel cinema. Così minimalista ed essenziale, dedicato alla sua arte e semplice. Entrambi, con ogni immagine, trascendono la realtà ed elevano le cose. Il nostro reparto artistico ha adottato i suoi colori e Benoît Debie, il mio direttore di fotografia, ha seguito il suo approccio alla luce».