TRAMA
Franck, uno studente di economia a Parigi, torna a casa dai genitori per un periodo di apprendistato presso l’industria dove il padre lavora da trent’anni. Viene assegnato al settore “Risorse Umane”. Il giovane cerca di risolvere la situazione di stallo creatasi tra la proprietà e i sindacati, che stanno negoziando la riduzione della settimana lavorativa, ma il ragazzo, ambizioso e ingenuo, sottovaluta certi aspetti della questione finché una scoperta casuale non gli apre gli occhi…
RECENSIONI
Premiato un po' dappertutto nei festival dove è stato presentato, "Risorse Umane" è un esempio di "free cinema" molto classico e anche abbastanza elementare nello stile e nella narrazione. Inoltre non ha né il geniale tocco sarcastico e tragicomico di Ken Loach, nè il respiro epico dei lavori dei fratelli Dardenne. Eppure ha riscosso un grande successo non solo di pubblico ma anche di critica, pur scatenando parecchie polemiche nella cerchia degli intellettuali di sinistra specialmente in Italia. Bisogna quindi operare una seria riflessione cercando di separare il valore artistico del film dalla propria aderenza ideologica a quello che è il suo messaggio, sicuramente a tesi: non c'è nessuna possibilità di mediazione tra padroni e operai, nessuna via compromissoria, i primi perseguono i propri interessi a proprio piacimento anche sfruttando subdolamente leggi dello Stato che dovrebbero teoricamente favorire i lavoratori e l'occupazione (nel caso specifico le 35 ore); l'unica possibilità di vittoria da parte degli operai è quella tradizionale di scioperare capeggiati dai sindacati, bloccare le macchine, "picchettare" le entrate, preparare striscioni di protesta a amplificare la protesta fino ad arrivare alla stampa. Ora, a prescindere dalle ideologie, la "tesi" appare certamente ingenua e stereotipata (anche nella forma), in una parola "banalizzata". Dov'è allora la forza del film? Non certo nello stile: sembra che Cantet voglia non solo sottrarsi ai vezzi o agli estri della camera a mano o delle imperiose soggettive del "cinema libero" odierno, ma addirittura smorzare le carrellate, utilizzando quasi esclusivamente la camera fissa. La vera forza di "Risorse Umane" sta in due aspetti: il primo è la rappresentazione incredibilmente realistica dell'"inaccessibile" mondo dirigenziale, riuscendo nell'intento di renderlo "mostruoso", senza ricorrere a caratterizzazioni grottesche dei loro rappresentanti, senza presentarci personaggi "hollywoodianamente" spregevoli, anzi, tutt'altro che arroganti, piuttosto imbarazzati e impacciati quando vengono smascherati; cioè quel "mondo a parte" risulta detestabile proprio nella sua pavida e viscida mediocrità. Il secondo e forse più importante merito del film sta nel meraviglioso e complesso rapporto tra padre e figlio, che in realtà è molto di più: è un conflitto generazionale, una contrapposizione fra due modi di intendere il rapporto datore-impiegato, una doppia catena: il padre fa il suo lavoro docilmente e servilmente sia perché crede come a una fede nella divisione inconciliabile tra i due ruoli di dirigente e di operaio e sia perché in tal modo può coronare il suo sogno di introdurre il figlio nell'altro mondo. Il figlio è costretto nel suo ruolo di dirigente sia perché vi è stato "forzatamente" condotto dal padre, sia perché si è laureato ed ha vissuto per anni nella "grande" Parigi e si è inconsapevolmente posto al di sopra dei suoi vecchi provinciali compagni d'infanzia (un po' come il dickensiano Pip di Grandi Speranze); nel ragazzo la presunzione consiste paradossalmente (secondo il regista) nel credere che egli possa unire i due mondi facendosi tramite tra di essi mediante un utopistico (ancora secondo Cantet) progetto di realizzazione del piano sulle 35 ore che accontenti tutti. Lo spezzamento delle catene sarà traumatico per i due uomini, prima per il figlio, poi per il padre. Entusiasmante (doppiamente entusiasmante trattandosi di un attore, come gli altri, non professionista) soprattutto l'interpretazione di Jean-Claude Vallod nel ruolo del padre, soffertissima, intensamente dolorosa, com-passionevole (nell'accezione "kunderiana" del termine), che dà pathos e forza emotiva ad una storia che perseguendo (con successo) il suo scopo fondamentalmente didattico, rimarrebbe asettica e fredda, emotivamente scarna.

Premiato al Torino Film Festival dello scorso anno e vincitore al festival di San Sebastian arriva finalmente anche sugli schermi italiani la sorprendente opera prima di Laurent Cantet. "Ressources Humaine" tratta lo scottante tema del lavoro e quello ancor più scottante delle 35 ore. Film esplicito e sentitamente didattico, Ressources Humaine ci ripropone il sempre caro tema della lotta di classe che va a intersecarsi con un'analisi profonda e puntuale del rapporto padre-figlio, auspicando la crescita di una nuova generazione votata alla rivolta per i diritti delle classi operaie ("mi hai cresciuto nella vergogna per la tua classe sociale" dice il figlio al padre) e lo fa con una scarica di realismo crudo ma senza l'enfasi che trascinerebbe il film nel ridicolo e nel patetico. L' unica pecca del film è forse l'uso eccessivo della camera fissa che potrebbe far pensare a una carenza di personalità registica, anche se una regia impercettibile è forse servita proprio a conferire al film maggiore realismo. Interessante il fatto che Cantet abbia scelto di usare per lo più attori non professionisti assegnando i ruoli a persone reali che nella vita occupano la stessa posizione sociale dei personaggi del film (gli operai interpretano gli operai, il padrone della fabbrica è un padrone vero ecc...).

Sorprende il cinema di finzione semidocumentaria di Cantet, affidato alle improvvisazioni nei dialoghi, all’assenza di commento sonoro, alla recitazione spontanea di attori non professionisti (escluso Jalil Lespert) e, tematicamente, ai personaggi umili: ricorda quello dei Dardenne ma Cantet cita Maurice Pialat per la sua “Capacità di far emergere la finzione del reale”. La sua opera è, anche, una sorta di “istant movie” sulla problematica delle 35 ore lavorative settimanali dibattuta nel periodo in Francia e, maggiormente, uno dei rari (viene in mente La Classe Operaia va in Paradiso) drammi “del” mondo del lavoro nelle fabbriche (non “sul”, né “in”) dove la tensione, i “colpi di scena” e le tragedie sono quelli che scaturiscono dalla normale dinamica di lotta fra classi, dirigenziale e operaia, governate da logiche completamente diverse: in mezzo stanno i sindacati, sempre più minati nella loro autorità e gli studenti freschi di studio con, nella borsa, un idealismo che si scontra con l’esperienza. Cantet, che ama i carrelli laterali panoramici, non opera una rivoluzione stilistica con il suo cinema, ma nel raccontare possiede un prezioso senso del pathos naturale, mai simile all’affabulazione.
