
TRAMA
In un Fantastico Regno alle porte di una città di nome Roma, vive in un decadente Castello la Nobile Famiglia Mancini, stirpe di alto lignaggio che gestisce un florido traffico di droga e di malaffare. Qui, Riccardo Mancini è da sempre in lotta con i fratelli per la supremazia e il comando della famiglia, dominata dagli uomini ma retta nell’ombra dalla potente Regina Madre, grande tessitrice di equilibri perversi: un tragico e oscuro incidente l’ha reso zoppo e storpio fin dalla tenera età, minando fortemente la sua salute mentale e obbligandolo a trascorrere anni in un ospedale psichiatrico. Tornato a casa, apparentemente guarito, Riccardo inizia a tramare nell’ombra per assicurarsi attivamente il possesso della corona, assassinando chiunque ostacoli la sua scalata al potere. Ma quando diventa Re, perde tutto… Riccardo va all’inferno e lo fa sorridendo.
RECENSIONI
È paradossale che oggi un approccio che magnifichi il lavoro scenografico, luministico, di composizione dell’immagine, oltre al movimento attoriale gestito come una coreografia - un discorso visivo, insomma - non frequenti tanto il cinema, ma continui a essere prerogativa del teatro. Solito ritornello: il teatro si può permettere di sperimentare, anche formalmente, perché il suo pubblico è preparato (in alcuni casi anche rassegnato) alla complessità. Il cinema no, nonostante la nostra storia (da Fellini a Bene, solo per citare nomi diversissimi) ci dica il contrario. Fa allora doppiamente piacere che Roberta Torre torni al grande schermo dopo sei anni e lo faccia avvicinando un testo scespiriano solo per rifarlo alla sua maniera (che è quello che, per l’appunto, il teatro fa sempre: proporre riletture), sulla scorta di un lavoro che per molto tempo ha condotto sui palcoscenici. Torre ragiona evidentemente per immagini e per quadri, legandoli al testo del Bardo - attualizzato, modernizzato - attraverso il lavoro testual-musicale di Mauro Pagani. E chiama Massimo Ranieri a incarnare il protagonista: un Riccardo III schizofrenico, diviso tra Bene e Male, tra dolore subito e inflitto, quindi insieme eroe e antieroe, un uomo traumatizzato nel corpo e nell’anima che, nel suo labirinto delirante, a capo della sua gang di freak, è un po’ demiurgo (muove le pedine del suo enorme plastico) e un po’ è disperato attore che calca il palcoscenico della sua follia, alle prese con i fantasmi del passato.
Il nodo è il rapporto con la regina madre (una Sonia Bergamasco che oscilla tra la strega delle fiabe e una diva al tramonto), un amore irrisolto e crudele, legato a una ferita d’infanzia che ha innescato un meccanismo di perversa, implacabile rivalsa: un rapporto madre - figlio raccontato attraverso i segnali del corpo (le menomazioni reciproche).
Qualunque sia il punto della narrazione, non lo si rappresenta mai a prescindere dall’effetto scenico, attraversando trasversalmente i linguaggi, arte alta e bassa - dalla televisione alla videoarte, dalla danza al videoclip, dai supereroi Marvel all’avanguardia -: per Torre il cinema è ancora un laboratorio di ricerca espressiva, di ibridazione fertile, in cui non si deve necessariamente soccombere al pensiero unico realista, ma, al contrario, perseguire una logica antinaturalista che qui trova espressione in una street opera esuberante, un musical dark figlio di un altro decennio (penso molto a Derek Jarman), in cui “il regno per un cavallo” è quello del malaffare (viviamo i tempi della decadenza: lo sfarzo è kitsch, putrida ostentazione) e che si appoggia, come avviene di rado al cinema, sulla performance (intesa in senso non meramente attoriale) del cast: Massimo Ranieri, voce e corpo, la già citata Sonia Bergamasco o le attrici-autrici Silvia Calderoni (Motus) e Silvia Gallerano.
