TRAMA
1955. La vita dei coniugi Wheeler, a Revolutionary road, è solo in apparenza tranquilla: Frank e April vorrebbero qualcosa di più e di diverso.
RECENSIONI
Questo inferno rosa
Richard Yates (1926-1992), autore non particolarmente apprezzato in vita (buona critica, lettori pochini), dimenticato per decenni, è stato solo recentemente, per iniziativa di alcuni addetti ai lavori e scrittori (Chabon è un suo fanatico ammiratore) riscoperto e ricollocato nel posto che gli compete: l'Empireo dei Grandi. Revolutionary Road non è soltanto il suo libro più importante, è una pietra angolare della letteratura americana del Novecento, un’opera seminale che oggi, a bocce ferme, può leggersi come preludio alla feconda stagione del minimalismo (da Cheever, Carver, Robinson in poi), anche se già all'epoca della pubblicazione il solco lasciato da quel testo fu evidente, almeno nell'ambiente letterario (gli fa eco il pessimismo glaciale del contemporaneo Un'altra vita di Malamud - un testo che implora un adattamento - e il brutale - e avanguardisticamente re-visitato - realismo de La fine della strada del pirotecnico John Barth, il vero padre della letteratura postmoderna d'Oltreoceano, col quale condivide lo stesso tragico epilogo).
Come per ogni adattamento di un capolavoro letterario (la chirurgica scrittura di Yates suona semplice, netta - fotografica, mi viene da dire -), il compito, per chi lo mette in scena, è pieno di insidie: Mendes tenta di seguire il testo alla lettera, fidando (giustamente) sulla forza delle situazioni e dei dialoghi - che, come per tutte le opere dello scrittore, rivelano battute e contesti d’azione serviti allo sceneggiatore su un piatto d’argento – e operando per sottrazione. Il regista opta per un registro visivo che ricalca evidentemente i film dell’epoca in cui la storia è ambientata: ecco che Revolutionary road si presenta sì come un true dramma, ma con le canzoni di Nat King Cole a dargli un retrogusto mèlo; i confronti tra i personaggi non nascondono asperità e crudezze, ma in un complesso compositivo dominato dalle tonalità desaturate della fotografia virata in ocra di Roger Deakins e dal calligrafismo tipico del cinema anni 50 (la coppia che si bacia, nel giardino, l’acqua che zampilla dalla pompa a incorniciare il quadretto familiare). Mendes, da parte sua, rivendica il suo background, la sua provenienza dalle tavole del palcoscenico, presentando con grande eleganza la città, in cui si riversano i colletti bianchi, come il teatro di una coreografia umana in cui va a stagliarsi la figura del protagonista prima di ridimensionarla nel cubicolo nel quale trascorre la sua giornata lavorativa; la recitazione stessa mostra un'impostazione che rivendica la medesima matrice teatrale. Sono sprazzi che arricchiscono l’impalcatura di un film che molto deve alle splendide prove attoriali, anche se i protagonisti, interpretati da Di Caprio & Winslet (una coppia dall’evidente chimica), faticano all’inizio a delinearsi come le figure anomale che sono o dovrebbero essere (la scena iniziale a teatro dovrebbe dirci delle ambizioni artistiche di April e del suo intimo desiderio di una vita che si svolga fuori dal rigido schema borghese nel quale si sta costringendo; dalle pieghe dei discorsi di Frank dovrebbe emergere un medesimo anelito), per poi affermarsi, nel corso del film, nelle loro piene caratteristiche: un impulso vero all’avventura e alla pienezza dell’esistenza da parte di lei; un sogno cosciente e calcolato, a cui decidere di credere fino a prova contraria, quello di lui. La distanza tra Frank e April viene rimarcata pesantemente da Mendes perché si comprenda che, anche nei momenti di maggiore sintonia, i coniugi non si piacciono, che sono prigionieri di una vita che dicono (solo) di non volere; che abitano esistenze parallele che non sono destinate ad incrociarsi se non per caso; che sono persone intelligenti, ma non abbastanza temerarie (non partiranno per Parigi adducendo la rinuncia ai soldi - “Il denaro è una buonissima ragione, ma non è quasi mai la ragione vera” dirà John, squarciando il velo), sensibili ma non fino all’impetuosità, più colte della media (il loro appartamento dimostra un design studiato, i quadri cubisti alle pareti contrastano con gli ammennicoli dei convenzionali e smorti salottini dei loro vicini), diversi da chi li circonda almeno nelle aspirazioni. Mendes affronta i Wheeler di petto, ma, al di là dei segnali più evidenti, lascia solo intravedere quello che sono (il punto sfugge di continuo, e non è una scelta, purtroppo): Revolutionary road è dunque un film su una coppia che afferma un istinto, ma con la spia della razionalità perennemente accesa, la noia di vivere in agguato e rimanendo comunque incline all’immaturo gioco al massacro che, aprendo baratri in baratri, riscatta in apparenza la frustrazione e fa rimbalzare dall’uno all’altra le responsabilità di un malessere non meglio identificato, il regista lasciando prudentemente sullo sfondo alcune costanti yatesiane (il bere, il fumare, la follia come via di fuga dalla piena coscienza della realtà, le pesanti eredità genitoriali – nel caso di Frank, in forma di vero e proprio karma -), ma anche non rinunciando a mettere in scena tutto il veleno quando necessita farlo (il faccia a faccia sull’aborto è la migliore scena del film, carica di tensione drammatica, e in cui il confronto straziante tra i personaggi viene reso dalla coppia di interpreti con un’esattezza di toni impressionante).
Mendes, ancora alle prese con le ipocrisie del vivere borghese (Revolutionary road potrebbe suonare, tutto sommato, come un prequel del sopravvalutato American beauty), dopo lo stiracchiamento classicheggiante di Era mio padre e l’azzardata incursione nel bellico (l’orrendo Jarhead) fa ulteriore esercizio di trasformismo e dirige con compostezza e una punta di rigidità un corretto adattamento, azzardando qualche flashback (per sottolineare il contrasto dei personaggi sul “come eravamo-cosa siamo diventati”); procede con sequenze alternate tra marito e moglie rivelandoli come genitori, senza preavviso alcuno per lo spettatore (l’apparizione dei figli agli auguri per il compleanno di Frank), rinchiusi nel “vuoto disperato” del confortevole mondo suburbano dal quale si sforzano di staccarsi (ma forse solo come tentativo di dipingere un’immagine diversa da consegnarsi agli altri: quella di Parigi, in fondo, è una fantasia di comodo, un placebo al mal di vivere) venendone comunque risucchiati: se essi sono diversi e ci tengono a non incarnare uno stereotipo, il contesto è pronto a neutralizzare tale diversità coniando una formula ad hoc – “i simpatici, giovani Wheeler”, gente “speciale” -, per la rassicurazione di quel medesimo contesto che, per garantirsi l’equilibrio, sa che ciò che conta non è cosa designi l’etichetta quanto il fatto che essa venga affibbiata [1]. Il regista riesce solo a tratti, però, a spaccare la superficie, a trafiggere il cuore pulsante delle questioni in ballo (la borghesia che vive nella rappresentazione di sé – e allora una tragedia si cancella semplicemente facendo ridipingere la facciata della casa che ne è stata teatro -), rimarcandosi in ciò la distanza tra immagine (anche forte: la Winslet di spalle, alla finestra, è un Hopper bagnato di sangue) e parola scritta (dunque la maschera sociale che indossano queste persone è mostruosa, ma il meccanismo della messinscena nella quale agiscono tali maschere sfugge totalmente nelle sue dinamiche), finendo Mendes col fare sostanzialmente (e facilmente) leva su quella che è la fondamentale risorsa del romanzo: il richiamarsi a un dilemma universale che coinvolge tutti, a tutti ponendo un interrogativo pesante come un macigno.
[1] Yates, con sconsolata ironia e sintesi straordinaria, descrive il borgo di Revolutionary Hill come “invincibilmente allegro”.
E’ in questa tendenza a un’autorassicurazione ansiogena che va letto il pianto nervoso della moglie di Shep alla quale la notizia della partenza per Parigi dei Wheeler suona, in tutta evidenza, come un segnale d’allarme assordante al punto da non poterlo ignorare (è come se la sirena gridasse: guardatevi, che vita state facendo?), il fatto che Shep bocci il progetto dei Wheeler la riconduce nell’illusorio mondo del quale per qualche attimo ha constatato l’artificio: il sollievo è enorme al punto da farla crollare.
Vale la pena ricordare che la prima edizione italiana del libro, anno 1966, venne intitolata da Garzanti I non conformisti.
La foresta pietrificata
Il sipario sta per calare sulla disastrosa rappresentazione teatrale allestita dall’amatoriale Compagnia dell’Alloro. La prim’attrice April Wheeler/Kate Winslet lancia uno sguardo al marito Frank/Leonardo Di Caprio seduto in platea tra gli spettatori. Negli occhi di April c’è una disperazione assoluta che non riesce neanche a tramutarsi in richiesta di soccorso. E’ la consapevolezza piena e devastante della mediocrità senza appello della messinscena.
Revolutionary road, adattato con insperata esattezza dal magnifico romanzo di Yates, è l’eco persistente di quest’incipit: la ricognizione, elegantemente chirurgica, del fallimento di una rappresentazione. L’esistenza serena e soddisfatta di sé, insediata in un ambiente quieto e lindo e circondata di beni confortanti, o la vita sognata altrove, randagia e sgombra di oggetti ma spiritualmente ricca e stimolante ¹: tutti allestimenti mediocri, ad ogni modo, con set oleografici e interpretazioni da filodrammatica (April in particolare, colei che si crede diversa dagli altri, si spende spesso in discorsi affettati, immersi in un anticonformismo fragile e in autentico). In un mondo di attori inconsapevoli, April Wheeler si rende progressivamente conto della sua natura di attrice di second’ordine, della pochezza di tutta la farsa, smarrisce – quasi bergmanianamente - la maschera, si scopre vuota e gravida di disperato vuoto ².
Mendes continua a lavorare sulla rappresentazione (e la percezione) calligrafica dell’esistenza per sbriciolarne impalcatura e senso sotto gli occhi dello spettatore. Revolutionary road, prequel ideale del suo parimenti acclamato e biasimato film d’esordio American Beauty (Lester Burnham potrebbe essere il piccolo Wheeler quarant’anni dopo), è un saggio di messinscena perfettamente e velenosamente formalista. A partire dalla scelta dei due protagonisti, anni fa icona di un amore romantico più forte della morte, di una giovinezza eterna e senza tempo, adesso perfidamente imbalsamati in un marito e una moglie senza più amore (e quello passato era probabilmente solo un simulacro), il volto da bambino precocemente invecchiato di Di Caprio, i gesti tesi che rendono cerea la naturale luminosità della Winslet. E poi le luci fredde e dense di Roger Deakins, solcate dall’insinuante manierismo del tema musicale di Thomas Newman. Quello di Mendes è uno sguardo di autoptica precisione che mette sotto formalina i mélo hollywoodiani degli anni ’50: incornicia (e inscatola) i personaggi mantenendosi a distanza (porte, finestre, vetrate, specchi, i divisori dell’ufficio di Frank), li intrappola nell’accademia delle loro vite da illustrazione pubblicitaria per poi perdere – solo apparentemente – il controllo nella concitazione finale, quando la macchina da presa si fa mobile e più aderente ai corpi scossi, quando tutto sembra deflagrare. L’impeccabilità delle forme e delle superfici è intaccata solo dalle nervose e straziate (e maiuscole) prestazioni dei protagonisti ³, il silenzio dei razionali e luminosi interni infranto da una singola rumorosa macchia di sangue. I personaggi, spesso inquadrati di spalle (Shep che fissa l’abitazione dei Wheeler, April a pranzo con il marito e i Givings, Frank seduto sulla panchina del parco davanti ai figli che giocano), guardano oltre la siepe e vi scorgono il nulla, spettatori oltre che attori di un’atroce commedia. Davanti al cui deterministico incedere a un certo punto, fiaccati dalla soffocante calligrafia esistenziale, non possono che abbassare lo sguardo o decidere di non ascoltare più. E continuare a recitare mediocremente. La rivoluzione qui è solo un inesorabile moto ciclico.
² I bambini in Revolutionary road sono creature distanti e assenti. I figli dei Wheeler appaiono in una festa di compleanno senza essere mai stati annunciati prima, figure quasi fantasmatiche illuminate dal bagliore delle candele, presto allontanati dalla villetta nella quale madre e padre stanno pianificando (e distruggendo) il loro futuro. I figli dei Campbell compaiono invece in una veloce inquadratura, totalmente catturati dalla televisione, indifferenti al padre che invano e senza molta convinzione attira la loro attenzione.
³ E non solo dei protagonisti. Tra gli altri, il bravissimo Michael Shannon propone una figura sull’orlo dell’usurato cliché, il folle esiliato dal consorzio sociale che intuisce e dichiara la verità delle cose, arricchendola di sarcastica e dolorosa umanità.
Dal romanzo (”I non conformisti”, 1960) del “miglior scrittore americano ignoto” (Richard Ford dixit), Richard Yates, uno che di frustrazione ne sapeva qualcosa: mai giunto alla notorietà, faceva il ghostwriter di Robert Kennedy. Temi importanti (l’alienazione nel modello borghese anni cinquanta, Lontano dal Paradiso e vicino a Douglas Sirk; la paura di vivere la vita sognata rispetto a quella più sicura), recitazioni potenti, musiche strappalacrime ed eleganza registica (un Mendes meno iconoclasta, sia iconograficamente sia per una drammaturgia piana che non cerca, come suo solito, il registro tragicomico): impossibile non restare coinvolti, ma la sceneggiatura di Justin Haythe non è all’altezza (ancora, Mendes non sa leggere: vedi Jarhead), non è abbastanza raffinata, non sa sviscerare l’argomento, non sa essere stratificata, ambigua, sorprendente. Mendes, di conseguenza, si limita ad esporre i fatti, conta sugli interpreti e lascia in evidenza solo la parte più risaputa del racconto, quella che verte sull’incomunicabilità di coppia e la freddezza formale di un modus vivendi forzato e opprimente. Anche il tema della follia che è normalità e la normalità che è follia non è nuovo, pur regalando all’opera la sequenza più bella, quando la bocca della verità del “matto” urla il suo disgusto ai coniugi, colpendo nel profondo degli animi, con dialoghi degni di nota. Eterni ritorni in Mendes: il tuffo negli anni cinquanta, l’importanza della figura paterna, la famiglia sull’orlo dell’implosione, la solitudine. Pare, infatti, una rilettura di American Beauty e un’estensione della “road to perdition”, titolo originale di Era mio Padre.