Noir

REVANCHE

Titolo OriginaleRevanche
NazioneAustria
Anno Produzione2010
Genere
Durata121'
Sceneggiatura
Scenografia

TRAMA

L’omicidio accidentale di una prostituta insinua l’ansia di vendetta in un delinquente di basso rango.

RECENSIONI

Un paesaggio immerso nel silenzio, riflesso in un lago, un oggetto che irrompe nell'acqua, interrompendo la pace, dissestando la superficie dello specchio naturale. Poi di nuovo la calma. Naturalmente. La prima inquadratura di Revanche trasfigura in immagine, didascalicamente, uno dei fondamenti strutturali dell'intera opera, la specularità, e nasconde a livello simbolico il distillato narrativo, il succo della trama in nuce, come a dichiarare al senno di poi l'inesorabilità degli eventi a seguire. Questa inquadratura necessita, per essere compresa pienamente, di un controcampo, che l'intreccio presenterà sul finire della pellicola: così Revanche tratta i personaggi maschili, Alex e Robert, come parti necessarie e complementari di un tutto, facce della stessa medaglia, personaggi ossessionati dal peso del medesimo tragico evento dinamico. Spielmann tesse tra i due protagonisti relazioni strettissime, in un discorso fitto di rigorose rime alternate, permeato da rimandi di matematica precisione, elementi di un apparato simbolico così limitato e così integrato al tessuto narrativo da risultare soffocante, ineludibile, perturbante nella sua perfezione. L'ineluttabilità del genere noir si fa implacabilmente stile, si cristallizza nella fissità del quadro, nei geometrici movimenti di macchina, nel reiterarsi delle inquadrature in un anagramma che non permette variazioni, così come il gelo della struttura annulla il respiro delle svolte narrative. Figure di questo complesso e imperturbabilmente tragico affresco sono idioti, anime mediocri e corpi hopperiani, differenti ma mai diversi, ossessionati più dalla superficie di un'immagine (le foto speculari di Tamara) che dallo strazio dello spirito, scissi tra falsa autopercezione e inadeguata essenza, intenti a dimostrare a se stessi e agli altri ciò che non possono essere, personaggi di un copione redatto da un destino su cui non riescono ad agire, costantemente giocati, mai giocatori. Se non c'è vendetta è perché la colpa è immanente e fisiologica, perché l'afflato dei personaggi è debole, non permette catarsi, svilisce ogni possibile lettura, pur accennata (il conflitto di classe, ad esempio), per impotenza. E che Alex sopperisca alla sterilità sessuale di Robert, procreando in vece sua, non rappresenta un surrogato di rivalsa, ma la conferma tangibile, viva, inevitabile di un intimo legame esistenziale. Il formalismo algido, l'opacità anti-psicologica della recitazione, la sospensione del giudizio, il regime narrativo debole sono elementi avversi alle logiche classiche del genere, creano una composizione matematica di immagini che non ha pretese di guidare il senso, di accompagnare lo sguardo dello spettatore, ma che si dona totalmente alla sua inferenza. Revanche è un film in cui tutto è già scritto, un corpo filmico chirurgicamente vivisezionato. Non c'è pathos perché sarebbe ridondante, il dramma è ammutolito: rimangono le azioni dell'uomo, su cui lo spettatore è chiamato a misurare la propria etica. Poi di nuovo la calma, tragicamente.

L’austriaco Spielmann è figlio dei climi raffreddati e degli andamenti (laconici, dispersivi) congelati come il compatriota Michael Haneke. Con una differenza fondamentale: ci fa più che esserci. La sua trama segue il canonico iter da crime story (molte somiglianze, ad esempio, con Notte sulla Città di Jean-Pierre Melville), mentre lo sguardo, nel genere, è più alla Cristian Mungiu che alla Nicolas Winding Refn, cioè alla ricerca più dello squallore esistenziale, della nudità (in tutti i sensi) che del massimo realismo. Poi entrano in campo il Caso, alla Haneke, e una sorta di dissertazione filosofica legata alla misteriosa scena iniziale di un oggetto che, cadendo nel placido lago, ne disturba la quiete. Porta a riflettere (più per non-detti e dilatazioni che per maestria di messinscena) su quanto l’essere umano non sia in grado di concepire il Caso come artefice del Destino, preferendo sempre rinvenire la colpa: ci sono due uomini tormentati che accudiscono la foto della vittima, ignari uno (del dolore) dell’altro. Spielmann indovina la suggestiva location fra boschi e fattoria ma, sotto sotto, nella sua opera affiora la schematicità con percorso edificante: l’opposizione città/campagna e loro sistemi di valori; fra anziani dalla vita sana e giovani scapestrati (quanto è adorabile la figura del nonno!); fra vita allo sbando e di facciata borghese (la moglie del poliziotto). Ripaga la chiusura del cerchio: torniamo al lago, s’intuisce la “morale”, la meta è molto bella. Peccato per un percorso accidentato dalla pretenziosità, spesso senza motivo apparente.