Drammatico, Recensione

REMEMBER

Titolo OriginaleRemember
NazioneCanada/ Germania
Anno Produzione2015
Durata95'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Zev Guttman, anziano affetto da demenza senile, è ricoverato in una clinica privata con Max, con cui ha condiviso un passato tragico e l’orrore di Auschwitz. Max, costretto sulla sedia a rotelle, chiede a Zev di vendicarli e di vendicare le rispettive famiglie cercando il loro aguzzino, arrivato settant’anni prima in America e riparato sotto falso nome. Confuso dalla senilità ma determinato dal dolore, Zev riemerge dallo smarrimento leggendo la lettera di Max, che pianifica il suo viaggio illustrandone i passaggi. Quattro le identità da verificare, uno il colpo in canna per chiudere una volta per tutte col passato.

RECENSIONI

Reduce da una serie di opere qualitativamente discutibili (Devil’s Knot e The Captive, giusto per segnalarle un paio), Atom Egoyan torna finalmente a convincere con Remember, revenge thriller geriatrico dalla struttura certamente convenzionale, ma dalle implicazioni tematiche sorprendentemente sfaccettate. Remember è l’ennesimo intervento su argomenti noti a molto cinema e già declinati nelle modalità più diverse: l’Olocausto e la sua memoria, nazisti ed ebrei, il trauma storico, il senso di colpa e la sua espiazione. In questo Memento della demenza senile, l’impossibilità patologica di ricordare è metafora molto facile della rimozione di eventi storici altamente traumatici e del senso di colpa ad essi connesso – sia che si tratti di un dimenticare cosciente, per scelta, per sopravvivenza; sia che si tratti di un meccanismo progressivo e naturale, tanto sconvolgente è la realtà storica di riferimento. Alla base di questo meccanismo rimane come costante il rifiuto del passato, un passato da cancellare, forse per vergogna, forse per convenienza. E così Egoyan si concentra sulla nuova veste di un’altra banalità del male, che si fa carne nel corpo arrancante di Christopher Plummer (strepitoso) e nebbia della sua mente tanto scollegata dal passato quanto dal suo presente. Il finale, segnato da un efficace colpo di scena, sembra suggerire il pentimento di chi ha creduto e operato in nome del nazismo, la vergogna intollerabile, l’insostenibile senso di colpa che esclude ogni perdono, anche di se stessi.

Ma la riflessione di Remember è più ricca e complessa di così, non si accontenta di adagiarsi su tesi emotive, amare ma rassicuranti. La chiave è Max, personaggio interpretato da Martin Landau, anziano ebreo in sedia a rotelle, vittima dell’orrore concentrazionario nazista e ora deus ex machina del piano di vendetta che Zev Guttman/Christopher Plummer è chiamato ad attuare. Chi è Max e cosa rappresenta? Il risentimento dell’ebreo che non perdona perché non si può perdonare? Dunque la sacrosanta vendetta storica, quella che chiude il cerchio e mette un punto? O è proprio lui il vero “cattivo”, l’antagonista che non vuole perdonare, colui che nella sua ricerca di vendetta (metodica, precisa e implacabile al pari delle strutture organizzative naziste) non fa altro che perpetuare l’orrore in un circolo infinito di rancore? Chi è la vittima e chi è il carnefice in Remember? Tutti? Nessuno? Il film, intelligentemente, non dà risposte; piuttosto accumula domande in un terreno di fertile ambiguità etica. Non dà risposte perché risposte non ve ne sono. Perdono e giustizia storica sembrano essere concetti eternamente sfuggenti, complicatamente relativi. In questo affastellarsi di quesiti insolvibili, la sospensione di giudizio a cui mira Egoyan è un sapiente atto di giustizia. La struttura del film, semplice se non proprio convenzionale, risulta infine funzionale ad un’espressione più diretta di questi interrogativi. Il film sembra cioè evitare di intellettualizzarsi in forme troppo pensose e cerebrali, alleggerendo la visione e facendo ordine fra le questioni sollevate congegnando un road movie a tappe relativamente prevedibile nella sua progressione. In alcuni momenti – ad esempio l’ultimissima scena, fastidiosamente superflua – questo processo di semplificazione è probabilmente troppo calcato, ma si può forse chiudere un occhio in virtù di un film che combina intrattenimento e riflessione in una soluzione filmica intellettualmente non banale.

Il solito doppio Egoyan: quando gira i film che scrive, e che portano avanti in maniera diretta e lucida il suo discorso, piaccia o meno, fa centro (compreso il recente The Captive, molto sottovalutato). Quando agisce su commissione e su script di altri (il mediocre Devil’s Knot, da ultimo), prova a dire le stesse cose, ma inevitabilmente con meno forza, pagando pedaggio al genere e al pubblico potenziale, e consegnando opere più convenzionali, compromissorie e solo a tratti interessanti (Chloe). Del secondo gruppo fa parte questo Remember la cui sceneggiatura del semidebuttante Benjamin August - folgorante, a sentire il produttore - affastella motivi già esplorati dal regista (si pensi solo ad Ararat), ma giocandoli sullo schema del thriller psicologico e declinando il canone su un acuto registro geriatrico. Il colpo di scena finale, che, sulla base di una serie di elementi ambigui disseminati nel corso del film, ribalta la logica narrativa e attribuisce ruoli imprevisti ai personaggi, non sposta il discorso di una virgola, suonando come la versione semplificata dei labirintici puzzle narrativi tipici del canadese.

Così Remember, che fida tutto in quell’inversione finale di senso (e sull’interpretazione impeccabile di Christopher Plummer), è un film stanco, che strizza l’occhio a Memento (la memoria che si resetta, la ricostruzione continua da parte del protagonista delle circostanze che sta vivendo, di quanto ha fatto e deve ancora fare), e che è costruito su un percorso facile e lineare, quello di un road movie definitivo, contrassegnato da tappe evidenti e vagamente pretestuose (e l’ombra dei campi di concentramento nella sequenza, di valore simbolico fin troppo sottolineato, del terzo tentativo a vuoto del protagonista di trovare lo sterminatore della sua famiglia ad Aushwitz). Il tutto si dispiega su un piano metaforico elementare: la demenza senile come patologia allegorica. Di qui il discorso sottinteso della memoria da tenere viva, del ricordo che tende a sparire, della rimozione degli eventi scomodi (a riguardo c’è una letteratura cinematografica recente a supporto) consacrato dall'emblematico titolo. Quando la trama tende a ricomporsi (la lettura della lettera da parte della bambina chiarisce i presupposti della missione del protagonista che lo spettatore aveva già ampiamente intuito) rimane un’esile storia a cui nulla aggiunge il finale-spiegone, postilla superflua che viene in soccorso solo di qualche spettatore sonnecchiante.

Riconferma del nuovo percorso artistico di Atom Egoyan che, affidandosi a script altrui, non “fa” più l’autore ma non rinuncia a segni della sua poetica, nella fattispecie la fallacia della memoria. Sceneggiata dall’esordiente Benjamin August, nelle sue mani l’opera diventa un atto potente ed emozionante, nonostante si fondi su due cardini risaputi al cinema, la vendetta sull’aguzzino nazista dell’ebreo in fin di vita e l’espediente finale, più difficile da declinare o rinvenire nelle filmografie, alla Angel Heart. La riuscita si deve al modo in cui Egoyan lavora con le interpretazioni, a scampoli del suo cinema degli anni passati, alla prova straordinaria di Christopher Plummer, al modo in cui leggiamo nel suo sguardo lo spaesamento della perdita di memoria e la sua dissimulazione, su cui s’innesta la traccia autorale più evidente, forse solo contingente, con il colpo di scena finale che rimette in discussione il concetto di identità e di senso di colpa, che rilegge il passato come un abito che si può indossare o meno, anziché qualcosa di indissolubilmente legato al libero arbitrio dell’essere umano. La riflessione su cui Egoyan punta di più, comunque, è quella della necessità della memoria, rivolgendosi alle nuove generazioni che assistono allo svelamento della verità e a quelle nostalgiche degli ideali del nazismo, responsabili di un’epidemia che si tramanda e che il protagonista, anche simbolicamente, mette a riposo.