
TRAMA
Una giovane dama di compagnia sposa un aristocratico fresco vedovo. Ben presto la donna realizza che il marito è ossessionato dal ricordo della defunta.
RECENSIONI
Primo film americano di Sir Alfred, REBECCA ha del pomposo adattamento letterario (da Daphne du Maurier, la stessa de GLI UCCELLI) a malapena l’aspetto: malgrado le impressioni dell’autore (vedi il libro-intervista di Truffaut), questo è un film di Hitchcock da ogni punto di vista. L’anonima antieroina, GIOVANE E INNOCENTE capro espiatorio di nebulose pulsioni, è ignara pedina di un gioco feticista e necrofilo in cui già si avverte l’autodistruttiva ossessione di VERTIGO: nel castello di Manderley l’aporia è legge, IL SOSPETTO fiorisce in mezzo a ritratti d’(artefatta) epoca e angoli nascosti, e anche quando la razionalità sembra prendere il sopravvento (il prefinale da legal thriller) il fuoco del mistero mantiene il controllo della situazione (il visionario epilogo, ancora e sempre nel nome di Rebecca, creatura terribilmente affascinante – anche, anzi soprattutto, post mortem – quasi quanto lo zio Charlie de L’OMBRA DEL DUBBIO). Non mancano passaggi dimenticabili (l’idillio monegasco), figure minori non proprio originali (la cognata ideale), dialoghi a tratti troppo espliciti, ma la regia è di una sicurezza e di un’eleganza senza pari, cesellando un prologo fatato e gotico che sa proiettare la propria ombra dolce e funesta su tutta la pellicola, costruendo una tensione crescente a partire da banalità quotidiane (la furtiva goffaggine della protagonista), trovando nella panoramica che accompagna il racconto di Max una magnifica natura morta che è forse il punto più alto della presenza/assenza di Rebecca. Ottimi tutti gli attori, tremenda e grandiosa la Mrs. Danvers di Judith Anderson.

David O. Selznick accoglie nel seno di Hollywood il talento di Hitchcock ed è subito successo: Oscar al film e al direttore della fotografia, per un racconto molto “british” alla Jane Eyre di Charlotte Brontë, tratto dal bestseller di Daphne Du Maurier, di cui l’anno prima il regista aveva trasposto La Taverna della Giamaica. Una fiaba nera, un film romantico su cui incombe una cupa ed angosciosa sensazione di terrore, governata dallo spirito di una defunta con cui la povera Cenerentola di Joan Fontaine non può competere, in quanto viva nel ricordo: molti film del regista iniziano con innocenti storie d’amore da deturpare e, mentre la morale invita a non prendere a modello miti fuorvianti, la protagonista “cresce” fino a diventare “donna”. Joan Fontaine restituisce una figura tanto amabile da risultare goffa, talmente in adorazione del suo uomo da ingobbirsi, per soggezione, al capezzale di un mondo che non le appartiene; Laurence Olivier, reduce da un altro successo romantico-gotico, La Voce nella Tempesta, è immenso. Hitchcock fa proprio il progetto costruito a tavolino dal produttore e confeziona una delle sue opere migliori, con progressione narrativa e suspense pressoché perfette, giocate sull’attesa inquietante o sul thriller puro, disseminando ovunque segnali della sua poetica: ironia mordace (che avrebbe voluto maggiore), donne terribili (l’acida nobildonna a Montecarlo; la terribile governante di Judith Anderson che compare sempre all’improvviso e mai mostrata nell’atto di camminare), perversioni sessuali (si intuisce che Rebecca fosse dissoluta e che la governante, con questa tenuta da lesbica di ferro, le fosse attaccata in modo morboso), innocenti in trappola, caso beffardo, inventiva tecnica (la casa co-protagonista, il meraviglioso prologo come soggettiva di un sogno). Peccato per il colpo di scena sbrigativo dove il personaggio di Olivier si rivela per ciò che non era, con un effetto che si prefigge di far ricredere su tutte le pulsioni negative mostrate (volutamente) fin lì: da persona piena di sé, scattosa, insensibile ed opportunista, diventa innamorato che si risveglia da chissà quale letargo o possessione demoniaca (psicanalitica).
