Commedia, Sala

REALITY

TRAMA

Il pescivendolo Luciano ha un talento per lo spettacolo e si esibisce per clienti e parenti. Un bel giorno, la famiglia lo spinge a fare un provino per il Grande Fratello. Da quel momento Luciano sarà ossessionato dall’idea di dover entrare in quella casa.

RECENSIONI

Omettendo di tradurre letteralmente dall’inglese, l’italiano ha guadagnato una nuova parola, reality, distinta dall’omologo realtà, che consente di rendere più sottile il gioco concettuale insito nel titolo del film di Garrone. Reality, nella lingua dei protagonisti del film, non è realtà, ma spettacolo: senza timore di confusione. È infatti la passione per la messinscena, per il travestimento e per la finzione (non certo un qualche arzigogolo teorico) che spinge il pescivendolo Luciano a immaginarsi protagonista della televisione e del proprio riscatto sociale. In questo senso, l’ansia di Luciano non è per nulla diversa da quella dei tanti aspiranti famosi che il cinema ha conosciuto sin dai suoi esordi: la celebrità è un miraggio potente che anima passioni spurie e violente. Il film di Garrone, però, non ritrae uno show televisivo ma una reale avventura popolare: un uomo che perde la testa per il Grande Fratello. Non è televisione, quindi (se ne vede pochissima), ma vita vera. Reality, allora, non è messinscena, ma letterale accadimento autentico, realtà. La vita di Luciano e della sua famiglia è diventata essa stessa televisione popolare, intrattenimento kitsch, spettacolo e competizione retti dalle regole di Canale 5. La lotta del pescivendolo per giungere alla celebrità è uno show reale e lui si regola di conseguenza secondo la più scontata etica della tv: dedicarsi anima e corpo ai propri sogni, astenersi dalle truffe, aiutare i poveri e, soprattutto, never give up! – non arrendersi mai. Dopotutto, l’egemonia reale del reality è la prova sperimentale dell’utopia situazionista del “Ne travaillez jamais” che, aggiornandosi al XXI secolo, ha sfondato i confini borghesi in cui era nata e cresciuta e si è estesa al proletariato, sostituendo il diritto a vivere da artista con quello a essere uno showman. Quello che per l’elite era ebbrezza libertaria o provocazione dandy (era Wilde che voleva la vita come un’opera d’arte), per il popolo è un format Endemol.

Luciano, dopo essere stato spinto dai numerosi e rumorosi parenti a tentare la fortuna con un provino del Grande Fratello al centro commerciale, è convocato a Cinecittà per un test più accurato. Convinto di aver fatto bene, aspetta solo di essere chiamato per l’inizio della nuova edizione del reality show. Al rione è già una star: lo applaudono, lo incitano, seguono gli sviluppi della faccenda. La chiamata, però, non arriva e Luciano crede che il Grande Fratello stia solo aspettando di accertare se lui è davvero degno di far parte dello show. Due signore romane alla pescheria, mai viste prima, potrebbero ad esempio essere due emissari della tv, venute a Napoli col compito di verificare Luciano sul luogo di lavoro. Quando scaccia via un mendicante in malo modo, Luciano si accorge che c’è un tizio che lo osserva dalla vicina bancarella delle scarpe: è forse una spia del programma, che adesso lo giudicherà per la sua cattiva condotta. Quando ritira da una signora l’ennesimo robottino da cucina in un giro di piccole truffe, un altro uomo a poca distanza scrive qualcosa su un blocco: un agente del Grande Fratello, probabilmente, che fa rapporto.

Come nel panopticon di Foucault, sapere di poter essere osservati costringe alla disciplina. E Luciano cambia radicalmente la propria vita per adeguarsi ai precetti del Grande Fratello. L’analogia con la religione è tracciata con mano pesante in almeno due momenti. In una gag, Luciano si lamenta con l’amico Michele di essere sempre osservato e si duole di aver commesso una cattiva azione, per cui sarà giudicato: l’amico, cattolico praticante, sembra equivocare e scambia i meccanismi televisivi descritti da Luciano per concetti e congegni religiosi. Nel bellissimo epilogo, poi, il pellegrinaggio religioso a Roma si conclude negli studi di Cinecittà dov’è la casa del Grande Fratello: per Luciano è un’esperienza mistica.  Vengono in mente interpretazioni un po’ banalotte (la tv è il nuovo oppio del popolo, l’apparizione non è più divina ma satellitare) oltre che alcune possibili variazioni tra Berkeley e la teologia (esse est percipi, appunto, ma è Dio a percepire il mondo e a garantirne l’esistenza) ma il discorso più interessante è tutto freudiano: Luciano ha interiorizzato la regola televisiva e la mette in atto nella sua vita, come se si trattasse un super-io coloratissimo e cafone.

Il ribaltamento di prospettiva (non è la tv a imitare il reale ma l’esatto contrario) non è certo un’intuizione rivoluzionaria, ma i modi in cui Garrone lo svolge sono equilibrati e intelligenti. Si comincia con una fiabesca carrozza tirata da cavalli: dall’alto, la macchina da presa segue il viaggio di questo fantastico veicolo fino alle porte di un sontuoso palazzo, dove la servitù imparruccata e incipriata accoglie sposi e invitati per una festa di matrimonio in chiassoso stile settecentesco. Da subito, quindi, Garrone mette in chiaro che nel reality agognato dal suo protagonista (uno spazio apparentemente esclusivo e distinto dal mondo reale), ci siamo già dentro sin dall’inizio. Con esplicito meccanismo circolare, l’ultimo movimento di macchina è invece una spettacolare plongée al rovescio, dalla poltrona luminescente della casa del Grande Fratello fino alla quieta distanza del cielo notturno, da dove la casa televisiva è soltanto un rettangolino trascurabile (ma perfettamente integrato) nella mappa metropolitana. Tutto il film si svolge dunque dentro il reality – che poi è (sorpresa) la realtà. La casa del Grande Fratello è, alla fine, contigua al mondo di Luciano, fatta della sua stessa sostanza. Entrarci non è poi così difficile come sembrava: è appena un passo più in là dalla Via Crucis al Colosseo (puntualmente in diretta tv su RaiUno, a ogni pasqua), e due passi in più dal rione di Napoli dove Luciano ha passato tutta la sua vita. La meccanica dello show è la stessa della vita di Luciano: l’inaccessibilità del mondo esterno è la privazione che innesca il desiderio dei concorrenti in tv e, banale paradosso, l’inaccessibilità di quell’alterità reclusa è invece ciò che infiamma la mente di Luciano.

Formalmente, Garrone si concentra con grande intelligenza su questo motivo topografico: tutta la faccenda è una questione di spazi (interni inaccessibili ed esterni negati, contiguità reali e apparenti, vie e piazze usate come anfiteatri, palcoscenici o – per l’appunto – stazioni di sorveglianza o prigioni panottiche) e la macchina da presa ha il compito di esplorarli e verificarli, in lungo e in largo, con attenzione e distacco, svelandone l’estrema familiarità e l’ineluttabile sostanza paranoica.Nella scrittura Reality si tiene invece sufficientemente lontano dalla filosofia. Il tono è puramente fiabesco ma senza abbandonare il registro realistico. C’è del vero quando Garrone dichiara di essere stato ispirato dai film della Pixar. L’ingenuità del protagonista (un autentico innocente impegnato in un viaggio avventuroso dentro un mondo fantastico), la consistenza dei personaggi e il ritmo del plot sembrano modellati su bozzetti da cartoon. I modi, gli umori, i personaggi e i meccanismi dell’intreccio si richiamano però direttamente alla Napoli di Eduardo De Filippo e Scarpetta, alla più lieve commedia italiana del dopoguerra e alle caricature un po’ paternalistiche e dolceamare di Steno e Zampa e di un certo Monicelli, prima ancora che ai citatissimi Visconti, Fellini e Germi (al posto del bravo Arena non si fatica a immaginare Totò). Lo script, però, non ha lo stesso rigore della regia. Le gag non funzionano sempre e alcuni motivi reiterati finiscono per stancare. Una volta svelata l’idea, il suo svolgimento fatica a mantenere ritmo per l’intera durata del film; alcuni dialoghi s’inceppano, c’è qualche passaggio maldestro e resta la sensazione che un’eccessiva fiducia nell’ispirazione di fondo abbia in qualche modo consentito una certa pigrizia inventiva. L’esito però è piuttosto felice. Garrone si conferma autore imprevedibile e rigoroso, fedele a un realismo materico e antididascalico che declina da anni con variazioni continue e inattese: la lirica esattezza destrutturata di Estate romana, la nera morbosità psicopatologica de L’imbalsamatore e di Primo amore, l’opprimente noir sociale di Gomorra e adesso questa commedia cartoonesca su un paesaggio culturale esplorato e disegnato con la curiosità e l’animo libero del bravo geografo.

Oggi, col senno di poi, è assai più facile considerare Gomorra come quel film enormemente sopravvalutato che era. Un'operazione dall'approccio pigramente debitore all'arte contemporanea, nella sua troppo meccanica commistione di flagranza documentaria e elaborazione visuale. Più nello specifico, a infastidire era il suo occhio troppo a-problematicamente descrittivo, troppo altezzosamente distaccato dalla materia raccontata, troppo sicuro di poter restituire una base informativa “impegnata” abbastanza solida da poterci ricamare sopra visivamente con sostanziale arbitrarietà e compiacimento. Reality, sulla carta, moltiplicava i rischi: già si immaginava, e si temeva, una possibile tirata sociologica sui rischi della fuga nell'immaginario cheap neotelevisivo, condita come sempre da arguzie fotografiche-scenografiche di prim'ordine.
E invece no. A sorpresa, Garrone va molto oltre. Dietro la parabola del pescivendolo napoletano che molla tutto irretito dalla chimera del successo facile che i reality show sarebbero in grado di procurare, non c'è una banale condanna, una risaputa presa di distanza. C'è invece una vera e propria battaglia teologica al centro di cui c'è l'occhio che tutto sa e che tutto vede: nulla di soprannaturale ovviamente, bensì qualcosa che stringe insieme molto concretamente religione, società e (infine) i media. In fondo, anche in Gomorra era questione di quest'occhio: allo spettatore ansioso di essere beneinformato veniva “venduta” la possibilità di contemplare (in tutti i sensi) una situazione e giudicarla dall'esterno – un po' come in un reality show viene “venduta” allo spettatore la possibilità di occupare il posto di chi tutto vede dall'esterno – e giudica. Reality, meritoriamente, si pone il problema di come aggirare, o debellare, questo occhio che tutto sa e che tutto vede. Quest'ultimo apre e chiude il film con due lunghe, splendide inquadrature in movimento dall'alto: tra la prima e la seconda, trapela nientemeno che una soluzione utopica a questo enigma teologico.
E la soluzione è questa: davanti a un invincibile “cingolato” istituzionale che annichilisce qualunque tentativo di fuga e di indipendenza nella triplice morsa di società, religione e media, l'unico modo di uscirne è abbracciare completamente, fino alla follia, la voglia di essere guardati da uno sguardo immaginario che “certifichi la propria esistenza”. Il protagonista del film, infatti, comincia a vedere dappertutto l'occhio del grande fratello, e in questo modo finisce per scombussolare la macchina istituzionale che sta tutt'intorno. A cominciare dal lato religioso (che Reality ha la maturità di porre a centro evidente del proprio discorso): il Prossimo, cattolicamente, è il punto “nella realtà” in cui l'occhio che tutto vede (Dio) si incarna. E lui, dal Prossimo, ne viene letteralmente ossessionato. Il prete ha un bel voler insistere sul dovere di distinguere essere e apparire: per Luciano, giustamente, sono la stessa cosa, e il Prossimo è il loro punto di convergenza.
Più nello specifico, il film si allinea con diligenza finanche sinistra, sospetta, pelosa all'inevitabile riassorbimento da parte della macchina istituzionale religione-società-media, che tutto vede e tutto riassorbe giocando al gatto col topo con l'apparenza e con la realtà. Tuttavia, si fa scuotere di continuo da una sana, benvenuta (nel cinema fin troppo liscio di Garrone) contraddittorietà: finisce insomma, qua e là, per aderire per davvero alla “santa” follia del protagonista, l'unico ad andare fino al fondo del paradosso “teologico” del Grande Fratello.
Come a dire: che non scherzino i vari Greenaway, Haneke e compagnia a giocare con le frontiere postume dell'arte contemporanea, col suo essere ormai “passata” tutta nella “realtà” oscillando nevroticamente tra il dentro e il fuori dello sguardo rispetto a ciò che guarda. Questa roba qua, la “spettacolarizzazione della vita quotidiana” che unisce arte e vita in una medesima agonia, noi ce l'abbiamo da parecchi secoli: sono lì (sorpresa!) quelle “radici cristiane” di cui tanti in questi anni si sono riempiti la bocca a sproposito. Vale la pena non dimenticarlo, in un Paese come il nostro dove, nel giro di pochi mesi, si è passati, politicamente, da un regime di presunta fantasia al potere a uno in cui, al potere, c'è un presunto risveglio nella realtà.

Matteo Garrone prende spunto da un fatto realmente accaduto (il vero protagonista, con il compenso ottenuto, ha ricomprato la pescheria) per mettere in scena una favola mesta, una commedia drammatica con i colori ed i toni, a suo dire, dei cartoon Pixar: parte inquadrando dall’alto una carrozza di Cenerentola e chiude nell’amarezza della follia con piglio da fantascienza, innalzandosi (con la cinepresa) sugli studi del Grande Fratello puntualmente ricostruiti. Il senso dell’operazione: una delicata ma non meno potente (per full immersion) critica alla cultura eterodiretta, al colonialismo della Televisione sui sogni di successo, dove il reality show è la scorciatoia per diventare ricchi e famosi, una droga per fuggire dalla realtà ma (dato che il protagonista, prima, non era in cerca di evasione) come bisogno indotto, miraggio invasivo. Purtroppo, dopo la partenza kitsch (il matrimonio con ospite d’eccellenza, “eroe” dell’ultima edizione del Grande Fratello) e la piacevole sorpresa delle eccellenti prove di Loredana Simioli e Aniello Arena (ergastolano della “Premiata compagnia della fortezza”), questa magnifica tavolozza di colori (in tutti i sensi), con notevole lavoro pittorico-espressivo (il regista ha citato L'Oro di Napoli), inizia a girare a vuoto, senza obiettivo e registri precisi, nel momento in cui si focalizza esclusivamente sull’aspettativa del protagonista (Garrone ha citato il teatro di De Filippo ma, come commedia o tragicommedia, funziona poco). La critica, infine, incide poco (soprattutto ripensando al Bellissima di Visconti) e l’impatto emotivo è arduo, nella scomodità di immedesimazione con tipi ingenui, ignoranti, creduloni, persino irritanti: lo sguardo di Garrone resta ambiguo e non s’innesca il meccanismo della migliore commedia all’italiana, cui riusciva una disapprovazione affettuosa. Infine, come operazione grottesca alla Hollywood Party, non possiede la sufficiente inventiva allucinata o una creatività che lavori di fino: si poteva fare molto di più, ad esempio, giocando sulla follia paranoica del protagonista.