
TRAMA
Abel e Junon ebbero due figli, Joseph e Elizabeth. Vittima di una rara malattia genetica, Joseph aveva bisogno di un trapianto di midollo. Dal momento che nessuno dei familiari risultava compatibile i genitori decisero di mettere al mondo un terzo figlio nella speranza di salvare il primo. Ma anche il piccolo Henri non risultò compatibile e Joseph morì all’età di sette anni. La famiglia Vuillard, molti anni più tardi, è disunita e litigiosa, ma la malattia di Junon ne decreta la riunione natalizia nella casa di Roubaix.
RECENSIONI
I motivi per amare il cinema di Desplechin sono gli stessi per i quali esso è osteggiato da molti: cinema che non si risparmia, tutto di testa anche quando pare di stomaco, che si parla addosso, che straborda, impuro perché si impregna di tutto (televisione, letteratura, filosofia, storia, teatro - c'è anche del bergmaniano in questo -), cinema ombelicale ed egocentrico, cinema che è pieno di "troppo" (troppo parlato, troppo pensato, troppo prolisso), cinema compiaciuto, spudorato, che mette in piazza i meccanismi, cinema che non esita a citare, evocare, riecheggiare, che forza la linea stilistica tracciata e la piega all'esigenza della narrazione. Perché Desplechin è soprattutto lo strenuo sostenitore di un lavoro che è narrativo fino all'integralismo, introspettivo fino allo psicologico, strutturalmente libero, frammentario spesso e volentieri, pieno di deviazioni, sfasature, strane imprecisioni (La sentinelle) certo, ma mai gratuito, sempre perfettamente conscio di sé; un cinema intimo, apparentemente caotico, invero quadratissimo che, pur analizzando e rappresentando stati d'animo e sentimenti, non sfiora neanche per sbaglio la compassione e non crea facili complicità con lo spettatore (la recitazione stilizzata di Esther Kahn); i suoi film tengono il piede in tante scarpe (anche in questo caso, come nel precedente Rois et reine, il dramma si veste di commedia e viceversa, con quella punta di grottesco che non mette in discussione il realismo). Regista originale, fuori dagli schemi, trascurato puntualmente dalla distribuzione italiana (il primo film accolto nel nostro circuito è stato, per l'appunto, I re e la regina), nonostante un esordio di bruciante bellezza (un mediometraggio che già tracciava in maniera chiara il percorso futuro dell'autore, La vie des morts) e altre mirabili perle tutte da vedere, Desplechin gira un nuovo film pieno di moltissime cose e in cui, quel che più conta, c'è un'urgenza sincera e indomita ad esprimerle, strutturarle, rappresentarle, scuoiarle, esibirle.
In Conte de Noël (un titolo dickensiano, dunque romanzesco) si torna alla famiglia, consesso sfrangiato visto (è abitudine dell'autore) come una sorta di finzione sociale nella quale ci si affanna a trovare "compatibilità" - in questo caso fisico-biologica prima che (u)morale: la questione si rivelerà non meno capricciosa (il destino lo è) -; distanti dal sentimentalismo comodo di tanto cinema (anche transalpino) o dall'automatica, retorica cattiveria dei fratelli-coltelli, dalla scontata dinamica del nido di serpi, i Vuillard offrono allo spettatore le proprie interiora nude e crude, si scoprono e si scontrano senza alcun filtro: il potere possente del legame familiare è proprio quello di polverizzare le inibizioni e portare a galla l'Io più recondito, rendere la nevrosi una normale modalità di rapportarsi; solo in famiglia si dicono e fanno cose che suonerebbero eccessive, esagerate, assurde in qualsiasi altro contesto e non sorprende dunque che, nella rappresentazione del francese, ci si trovi di fronte a una madre che detesta apertamente il proprio figlio, partorito per puro calcolo; inutile allo scopo all'epoca, in seguito Henri si rivela inaspettatamente decisivo per la stessa sopravvivenza di Junon, anche se troppa acredine è passata, troppo radicata è l'insofferenza perché la salvezza della propria vita possa riscattarlo agli occhi della donna. E anche per Henri la donazione del midollo è vista quasi come un cinico sdebitarsi: ti do la vita come tu l'hai data a me, pari siamo. Ancora una volta l'armonia tra i personaggi è un percorso in salita, l'ipotetico obiettivo finale; ancora una volta l'intesa non è data in partenza, si parte dalla frantumazione e si tende ad un'unità possibile.
Le relazioni tra le persone sono una materia dannatamente complicata e divengono astruse nel salotto borghese dei Vuillard, dove non si dice "papà" e non si dice "mamma"; dove la morte di un figlio si accetta come la caduta di una foglia da un albero; dove la nonna ha avuto una stabile relazione lesbica; dove l'ultimogenito Ivan rivede nella psicosi del nipote Paul quella della sua adolescenza; dove il rancore è il sentimento principe; dove vita e morte sono eventi svuotati di implicazioni umane, ridotti a probabilità su una lavagna, crocifissi a un freddo calcolo; dove i nipotini già "proiettano" in ingenue rappresentazioni teatrali nelle quali amleticamente ci si riconosce: la dea Giunone al centro della piccola platea, come la sovrana di questo microregno (non dimentichiamoci i nomi dei quattro figli: Joseph, Elizabeth, Henri, Ivan - i re, la regina); in cui è tutto un riverberarsi di malesseri e livori, veri e propri intrighi di corte, appena mediati da un rimpianto, in un cumulo di eventi fatali e di ruggini riflesse che sfiora il demenziale, ma che non per questo risulta meno lancinante, meno scorticante, meno esattamente doloroso. Su tutto questo affanno vigila non solo l'occhio del testimone Faunia (nome della protagonista de La macchia umana di Roth - Roth è una passione del regista -), ma anche quello di Elizabeth, che soffre più di tutti, pare, e che più di tutti sembra patire la solitudine del dolore, tanto da volervi trascinare qualcuno pur di non dirsi sola in quella palude, e che non esita a fare letteratura di questo suo dibattersi.
Anche Desplechin non esita a mettere in gioco se stesso e il suo vissuto in quello che si sta rivelando un unico grande romanzo cinematografico, un opus sempre più compatto che racconta la vita (e l'arte) attraverso tantissime parole e tantissimi atti di personaggi vivi, concreti, non di archetipi, per quanto i riferimenti leggibili possano farlo pensare: i caratteri che si muovono sulla scena non sono metafore, sono uomini e donne nudi, senza la protezione di alcun paradigma; solo in questo senso possiamo dirci d'accordo: il cinema di Desplechin può essere fastidioso, provocare disagio; è un cinema che disturba perché ci strappa le vesti di dosso e ci obbliga all'imbarazzo di constatare e far constatare ciò che siamo (l'attore, volendo "far credere", deve mentire o dire la verità? Il paradosso di cui parla il vecchio pigmalione impersonato da Ian Holm in Esther Kahn in cui la protagonista, alla fine, diventando una vera donna diventa una vera attrice).
E come al solito il suo racconto è un affresco fluido, una sarabanda di voci più sorvegliata e meno dissonante del solito (altri direbbero più matura) che punta in tante direzioni e in modi sempre variegati (è soprattutto in questa libertà stilistica che va rinvenuto l'aggancio dell'autore alla Nouvelle vague): dall'incantevole antefatto affidato alle ombre cinesi, alla presentazione al pubblico fatta teatralmente da Junon, ai freezing frame, alla struttura in capitoli con tanto di didascalia, alla voce che narra fuori campo, alla pura recita della lettera da parte di Henri, con una chiusa di ghiaccio paralizzante (cfr. la lettera recitata dal padre a Nora, nel momento emotivamente più forte di Rois), per non parlare dei continui rimandi di un'opera all'altra (Dedalus, era anche il cognome joyciano del protagonista di Comment je me suis disputé... (ma vie sexuelle); in Rois Vuillard era il cognome del protagonista Ismael, figlio anche in quel caso di Abel Vuillard, ancora interpretato da Rouissognon).
Costante occhio ai classici (ma in un senso tutto moderno: riecco la Nouvelle vague -) e ai loro codici (in tv Cenerentola a Parigi di Donen, Sogno di una notte di mezza estate di Dieterle & Reinhardt - stralci della colonna sonora del film del 1935 sono usati dal francese -, I dieci comandamenti - onora il padre e la madre? - di DeMille etc); la citazione esplicita, è ancora una volta per Vertigo, con la magnifica sequenza che parte dal museo e finisce nel negozio di abbigliamento. Rievocativa in più sensi (il riferimento compariva già ne L'aimée: non dimentichiamo che la storia originale dalla quale il film di Hitchcock era tratto era ambientata proprio a Roubaix): donne che vivono due volte, i fantasmi del passato (la prima moglie di Henri, Madeleine - come la Novak -) che affondano per riemergere, segnano il presente in modo indelebile, lo compromettono, lo corrompono quasi (la vita dei morti, per l'appunto. E la possibile morte dei vivi). Ma Hitchcock come presenza sorniona anche nella sparizione di Junon al negozio (La signora scompare) o nel momento in cui il nipote Paul vede materializzarsi allo specchio la sua psychosi.
Questo senza stare a sottolineare quanto magnificamente sia girato questo Conte de Noël (la macchina da presa è nelle mani del solito Eric Gautier), con quale sottigliezza sia scritto, con quale piglio siano diretti gli attori (una squadra fantastica - cito Devos e Poupaud per tutti -). Desplechin, mai così concentrato e misurato (sì, proprio), forse meno spericolato del solito, sfiora il virtuosismo, firma un nuovo capolavoro.
