Drammatico

QUELLA SERA DORATA

Titolo OriginaleThe City of your Final Destination
NazioneGran Bretagna
Anno Produzione2007
Durata120'
Trattodal romanzo di Peter Cameron
Scenografia

TRAMA

Omar, dottorando iraniano in un università del Kansas, dovendo scrivere la biografia dello scrittore Jules Gund, autore di un unico libro, si reca in Uruguay, nell’ultima residenza del letterato, per strappare l’autorizzazione alle tre persone che gli sono state più vicine in vita: il fratello, la vedova e la giovane amante da cui ha avuto una figlia.

RECENSIONI

Amo il cinema di James Ivory.

La decisione del regista americano di ridurre per lo schermo la novella di Cameron è quasi ovvia, alla luce di quello che, tematicamente parlando, è un corpus di opere, il suo, che si presenta tra i più compatti e coerenti della storia del cinema. Rimandata per anni dal sottoscritto, la questione, sollecitata dalla visione di quest'ultimo lavoro, straordinariamente importante per ciò che rappresenta prima che per il suo esito, va, infine, affrontata come merita. Si consideri allora questa recensione come una sorta di speciale in cui la riflessione sulla pellicola in oggetto si intreccia con quella relativa all'intera filmografia del regista. Isoliamone, dunque, le componenti.

[A] Il romanzo e il suo adattamento sovversivo
Si tratta di film quasi sempre tratti da romanzi, più o meno famosi, più o meno validi, che sono fatti oggetto di un adattamento che opera una sottile sovversione: la riduzione (per l’appunto) sottrae, omette, viene spesso paralizzata nella constatazione di situazioni quotidiane, routinarie, ibernate nel non detto dei punti determinanti, in un’apparente placidità di tono che punta sullo statico dialogo piuttosto che sul procedere evidente degli eventi, in modo che le questioni in ballo (roventi, invero) risultino talmente intrinseche alle circostanze e alle figure che le animano, da mimetizzarsi in una cheta messinscena: in essa, dunque, i punti dolenti vanno individuati sotto il guscio dell’apparenza, raramente verificandosi l’esplicitazione plateale della tragedia o del tormento, essi restano compressi sotto la glaciale pacatezza dei personaggi; l’eloquio estenuato, l’ironia costante, la ricostruzione di un’epoca - letteraria, ma reale - sono elementi che creano una patina che soddisfa lo spettatore meno attento che può limitarsi ad accarezzarla, accontentandosi del dramma di superficie, dalle tinte più o meno mèlo, o delle fragranze brillanti di una commedia sofisticata (anche molta critica si ferma lì, ça va sans dire), ma che mette anche in condizione l’osservatore più esigente di spaccarla per leggere, nel nucleo pulsante della storia, le motivazioni profonde di un agire e di un sentire e tutto quello che di crudele, doloroso, funesto si agita dietro quella calma di regime e l’apparente perfezione del contesto scenico.
Due esempi molto lontani che fanno capo allo stesso attore, Anthony Hopkins:
1) la cesellata banalizzazione del personaggio di Picasso (nessuna grandiosità, tutte piccolezze) in un film straordinariamente anomalo, Surviving Picasso, che non tratta della sua arte, se non accidentalmente, quanto del lato più ovviamente umano, per non dire gretto, della sua esistenza e del suo rapporto con le donne (film per questo, solo per questo, tremendamente criticato);
2) la sequenza in cui il maggiordomo Stevens, dopo aver appreso da Miss Kenton che il padre, al piano superiore, è morto, torna ad assistere gli ospiti del suo padrone nel salotto, in Quel che resta del giorno. Essa è, a mio avviso, un emblema e la quintessenza del cinema dell’autore: il gesto viene offerto dal personaggio come un’espressione d’animo quasi disinvolta, ma celando una frattura interiore devastante che Ivory, regista spietato come pochi, sa che lo spettatore non potrà non registrare.

[B] L'estraneità del personaggio ivoriano
Al centro delle storie ci sono sempre personaggi che operano in ambienti diversi da quelli dai quali provengono e i titoli spesso lo evidenziano esplicitamente: Jane Austen in Manhattan (storia di due compagnie teatrali americane che si contendono l'adattamento di un testo inedito della scrittrice inglese, qui idealmente richiamata in un contesto straniero) o Jefferson in Paris (Parigi è in tal senso luogo prediletto: in essa sbarcano i coniugi inglesi Heidler di Quartet, lo scrittore americano Jones de La figlia di un soldato non piange mai, l'artista spagnolo di Surviving Picasso, l'incasinata famiglia americana di Le divorce ed è teatro dello spaesamento dei coniugi del Kansas del mai troppo lodato Mr. e Mrs. Bridge). Rispetto al contesto la figura allogena risulta sia attiva (essa tenta di capirlo) sia passiva (essa lo subisce, il contesto ritenendola incapace di comprenderlo).

[C] Il confronto/conflitto

A seconda della marca di diversità che segna il nuovo ambito d'azione il confronto (o il conflitto) che inevitabilmente ne deriva si può esplicare a vari livelli (tra parentesi solo alcuni esempi, la maggior parte dei titoli andrebbe ripetuta per quasi tutti i casi):
- etnico (Shakespeare Wallah, The guru, Calore e Polvere, Jefferson in Paris, La contessa bianca, etc)
- culturale o religioso (Quartet, Camera con vista, Le divorce, Mr e Mrs Bridge, Gli Europei, Jefferson in Paris etc)
- sociale-politico (Camera con vista, Casa Howard, Maurice, Mr e Mrs Bridge, Quel che resta del giorno, Jefferson in Paris, The golden bowl, La contessa bianca etc)
- familiare (Gli Europei, Camera con Vista, Casa Howard, Le divorce, La contessa bianca etc)
- sessuale (Quartet, I Bostoniani, MauriceCasa Howard, Surviving Picasso, The golden bowl etc)
- artistico (Schiavi di New York, La figlia di un soldato, Surviving Picasso, Jane Austen in Manhattan etc)
- esistenziale (tutti)
L’intreccio di Calore e polvere, non a caso tratto da un romanzo della sua sceneggiatrice, è, in tal senso, il Perfetto Canone Ivory: il confronto tra due civiltà (inglese e indiana) viene relativizzato attraverso la presentazione di un doppio livello temporale (le vicende parallele di una donna e della sua pronipote che ne ricostruisce la storia) e sancisce anche i mutamenti che le convenzioni dei due ambiti hanno subito nel corso del tempo, il diverso modo di interpretarli in base alle mutate condizioni, non solo personali, non tutte congiunturali.


[D] Il nuovo sguardo su sé stessi
Tale confronto/conflitto da un lato costituisce un ostacolo, perché presuppone uno sforzo per comprendere e assecondare le convenzioni che governano esplicitamente o tacitamente l'ambito dell'azione, con tutte le conseguenze in termini di possibile, e quasi sempre ricercata, integrazione e/o accettazione, dall'altro lato si traduce in un impulso vitale in virtù del quale il personaggio, trovandosi in circostanze per lui inedite, arriva a ragionare su se stesso in maniera diversa e distaccata. Il ricorrere di questo tema riflette  le condizioni dell'equipe che lavora a questi film: dal regista, americano, ma da sempre proiettato sull'Europa e con un occhio all'India (il primo periodo della sua produzione, segnata dall'incontro decisivo con Ismail Merchant che si è tradotto in un inossidabile sodalizio sancito dalla creazione della Merchant Ivory Productions), alla sceneggiatice Ruth Prawer Jhabvala, tedesca trapiantata in India. Anche gli scrittori prescelti da Ivory riflettono spesso questo ibridismo: Forster, inglese che ben conosce l’India; Jean Rhys, nata nella Repubblica dominicana da genitori inglesi; Kazuo Ishiguro, nato in Giappone e naturalizzato inglese; Henry James, americano trapiantato in Gran Bretagna; Diane Johnson, che divide la sua vita tra gli Stati Uniti e la Francia etc.


[E] La repressione dei sentimenti
Il soffocamento delle proprie pulsioni, il minimizzarle o il seppellirle a seguito di complicati intrecci pseudo moralistici, di ipocrisie sedanti fino alla grottesca asfissia, costituisce un'altra tematica ricorrente nei film del regista: la corte che Basil fa a Verena, ne I Bostoniani, è una maratona spossante, volta a vincere le reticenze che trattengono la passione che la ragazza, manovrata da più parti, prova per il giovane, ma che ella si nega, ed è speculare al devoto quanto vano riproporsi di Victor alla plagiata Ariadne nel precedente Jane Austen in Manhattan; ma l'elenco sarebbe lunghissimo: dai tentativi di repressione degli istinti omosessuali del Maurice forsteriano al caparbio rifiuto che Lucy oppone a se stessa e al sentimento genuino di George in Camera con vista, passando per l'erotismo costantemente rinviato e infine frustrato tra Jefferson e Maria Cosway (Jefferson In Paris), fino all'apoteosi della Negazione di Quel che resta del giorno: il maggiordomo Stevens non riesce a dire mai quello che prova, anche quando la governante, Miss Kenton, gli porge le occasioni su un piatto d'argento; la sclerosi del sentimento, cristallizzato in un silenzio invincibile, emerge con straordinaria forza in quella che, per quanto possa suonare ironica, stante la sostanza del riferimento alla questione lavorativa, è una battuta di lancinante dolore, tradito dal tono grave col quale viene pronunciata, significando, per il maturo inserviente, il massimo della confidenza che si permetterà con la donna: «Miss Kenton, questa casa ha molto bisogno di voi. Siete estremamente importante per questa casa, Miss Kenton». La casa è un dito dietro il quale si nasconde l'amore che l'uomo prova per la donna, ma tale evidenza non basta se non viene anche proclamata a voce alta e senza giri di parole. Il silenzio va spezzato: nella glaciale struttura delle convenzioni i sottintesi non bastano, in essa anche i sentimenti più caldi muoiono se non chiedono, urlanti, l'attenzione del destinatario.


[F] La scelta finale
Decifrando infine il proprio interiore, pervenendo a conclusioni inaspettate e più autentiche su se stesso, il personaggio realizza a quali condizionamenti l'ambiente di appartenenza o altri fattori esterni lo abbiano assoggettato e a quanta parte di sé ha dovuto rinunciare fino a quel momento a causa di quei condizionamenti; opera allora una scelta, di coraggio (Camera con vista, Maurice, I bostoniani) o di rassegnazione (Gli Europei, Quel che resta del giorno, The golden bowl).

QUELLA SERA DORATA
Declinati in maniera differente, per intensità e caratteristiche, tutti i film di Ivory presentano alcuni o tutti questi elementi. Ebbene, come si diceva, The city of your final destination (l'edizione italiana del film conserva l'assurdo titolo delle edizioni Adelphi, Quella sera dorata) di Peter Cameron (autore del più famoso Un giorno questo dolore ti sarà utile) è un romanzo che non poteva non colpire il regista, dal momento che aderisce in tutto e per tutto all'abituale reticolo tematico. Tutte le componenti del suo cinema [A-  B - C - D - E -  F] rispondono all'appello. Realizzato nel 2007 il film, dopo una speciale prima newyorkese in quell'anno, è stato bloccato da una querelle legale che ha visto fronteggiarsi la Merchant-Ivory e Anthony Hopkins per una tormentata controversia relativa al cachet dell'attore, alfine risoltasi. Reduce da alcune prove di scarso successo (lo straordinario La figlia di un soldato non piange mai che nel suo rifiuto della narrazione tradizionale - mai così spudoratamente evidente -, con quel suo avanzare esplicitamente ondivago, va ad ascriversi tra le sue cose migliori di sempre -, il sottovalutato - e ovviamente maltrattatissimo - The golden bowl, il grazioso, ma trascurabile Le divorce e La contessa bianca, altra mirabile prova caduta ingiustamente nel dimenticatoio) e dalla scomparsa del partner Merchant, Ivory propone, con sublime tenacia, un film che è paradigma e sintesi illuminata della sua filmografia, del suo amato/odiato cinema letterario in cui la maniacale cura della scrittura [A] va di pari passo e si integra, per le necessità poetiche di cui sopra, alla meticolosa costruzione degli ambienti e all'attenta scelta del cast attoriale cui l'autore regala sempre caratteri perfettamente disegnati, densi di sfumature, traendone puntualmente il massimo.

Omar, dottorando iraniano, cresciuto in Canada e che vive e studia in Kansas, si reca in Uruguay, spinto dalla sua ragazza, per conquistare il consenso dei familiari a scrivere una biografia dello scrittore suicida Jules Gund, avendone ottenuto un preventivo rifiuto. Presentatosi nella sperduta Ochos Rios senza alcun preavviso, viene da questi ospitato ed entra nel loro anomalo microcosmo. Omar è un tipico personaggio ivoriano: ha radici orientali, ma vive in Occidente; il suo viaggio in Sudamerica lo porta a contatto con un altro ambito inedito che da un lato vede turbati i suoi equilibri dall'avvento dell'inatteso ospite, dall'altro influenza e disorienta il giovane stesso [B, C]; nella tenuta uruguayana Omar conosce Arden (l'amante che vive nella casa con la figlia che ha avuto dallo scrittore e con la vedova di questi) ed è spinto, non senza tormento, a guardare senza filtri dentro di sé e nei propri sentimenti, lontano dai soppesati tornaconti esistenziali ai quali ha conformato la sua condotta [D]; di fronte alla difficoltà di scandagliare senza riserve nel suo animo, il personaggio ivoriano incontra di frequente qualcuno (il padre di George per Lucy, in Camera con vista; lo psicoanalista per il protagonista di Maurice; Caroline, la moglie di Jules, in questo caso) che lo supporta, scrutando, con chiarezza superiore, dentro di lui: Omar se è vero che ha intrapreso il viaggio anche per sfidare il suo malessere esistenziale, è vero d'altra parte che non riesce a trovarne il bandolo, capendo solo alla fine che la sua insoddisfazione deriva dall'ostinarsi a condurre una vita che, fondamentalmente, non lo rappresenta. Il "nuovo mondo" lo conduce, secondo il consueto percorso dell'autore, alle soglie di un nuovo amore, ma frustrato e dolorosamente inespresso [E] (il bacio tra il giovane e Arden, come quello tra George e Lucy nella campagna fiorentina, in Camera con vista o quello abortito tra Miss Kenton e Stevens, nella magnifica scena in cui la donna induce il maggiordomo a svelare la sua passione per i romanzi d'amore, in Quel che resta del giorno, rivela sì un mondo di passione sommerso, ma anche tutta la fatica per portarlo a galla) al quale toccherà al destino dare voce o soffocare definitivamente. Ecco allora che, nel presente film, la biografia dello scrittore (i Gund sono ebrei sbarcati in Uruguay dopo essere fuggiti dalla Germania nazista), da elemento centrale del discorso tra i vari personaggi (come il testo teatrale da mettere in scena in Jane Austen in Manhattan, come la causa femminista ne I bostoniani, la magione in Casa Howard, la missione diplomatica del protagonista di Jefferson in Paris, tutto l'altro di Camera con vista, film che elude superbamente i punti per tre quarti della sua durata), passa in secondo piano e diventa il paravento dietro il quale si nascondono i caratteri, le inclinazioni, e gli intenti reali dei personaggi. Arden, inizialmente contraria, si dice favorevole alla biografia per avere vicino Omar; Caroline, pur leggendo bene la frustrazione amorosa di Omar, non vuol dare il suo consenso perché da essere infelice quale è teme la felicità altrui, avendo intuito che Arden si è innamorata del giovane; Adam, il fratello dello scrittore, usa la biografia e il suo consenso come moneta di scambio per la questione della vendita illegale dei gioielli. Omar stesso capisce che la biografia è un problema fittizio dietro il quale si celano ben altri nodi della sua vita (il suo rapporto con Deirdre oramai logorato, la dispoticità di quest'ultima, la loro incolmabile distanza). E come al solito, dietro la girandola di avvenimenti che coinvolgono le parti più attive, si aggirano figure solo in apparenza secondarie (Pete, il compagno di Adam, thailandese, ennesimo personaggio in trasferta) e che invece risultano ingranaggi del gioco fatale che deciderà degli esiti delle vicende. La parola ancora una volta è la base della storia: è attraverso di essa che i silenzi vengono polverizzati, sono i discorsi a mutare i destini dei personaggi, attraverso la capacità di ciascuno di persuadere gli altri della bontà della propria posizione, della propria capacità di garantire la salvaguardia delle sensibilità di tutti, dell'interesse prioritario di cui si dice portatore. La chiave di volta ha dello scespiriano: il coma di Omar, a seguito della puntura di un'ape, annulla le distanze residue e porta tutti i protagonisti a confronto, rimescola le carte, muta le alleanze e gli accordi presi. Come suggerisce il titolo, ciascun personaggio, alla fine, trova la sua destinazione naturale: Caroline lascia il pantano interiore dell'Uruguay e va a New York, dove si sposa con la persona giusta; Arden dice di sì ad Omar che trova la sua vita a Ochos Rios; Deirdre, lasciata da Omar, vivrà anch'essa a New York con un altro uomo; Pete svolgerà il lavoro che desidera in una terra che ama (significativa variazione rispetto al romanzo), Adam approda alla serena vecchiaia cui ambiva; tutti i personaggi si avvieranno verso il luogo fisico o ideale al quale naturalmente tendono e verso il quale ciò che ognuno è trova piena realizzazione; se si ascolta bene quando la nostra anima parla, se non si lascia inquinare il suo discorso da ragioni elusive, false convenienze e lusinghe fuorvianti si riesce a raggiungere la nostra meta d'elezione. Assecondando la genuina inclinazione anche ciò che sembrava sbagliato o inopportuno (la biografia di Gund, per la moglie Caroline) può assumere un senso, indirizzare al meglio la nostra situazione, collocarsi coerentemente nel cammino della nostra vita («Ognuno ha la sua strada, Madame Abbesse, e noi abbiamo il dovere di seguirla per rimanere fedele a noi stessi», dice il futuro presidente degli U.S.A. alla badessa del convento mentre riconduce la figlia verso il Nuovo Continente e il suo naturale destino, impedendole di farsi suora per mera reazione contro la tresca del padre con la schiava, in Jefferson in Paris) [F].

Alla luce di quanto detto, se non sapessimo che è tratto da un romanzo preesistente, potremmo vedere in questo The city of your final destination il film con il quale il regista volesse dare la definitiva dimostrazione del proprio discorso artistico, quasi un progetto esemplare concepito a tavolino, tanto risponde bene alle istanze teoriche che hanno da sempre informato la sua produzione, tanto queste risultano decodificate e portate alle loro estreme conseguenze. Tutto il consueto armamentario autoriale - il melting pot ad ogni livello - non solo viene dispiegato limpidamente in questa pellicola, ma le differenze su cui poggiavano i precedenti lavori qui si moltiplicano a dismisura, si mescolano, invadono ogni ambito: le differenti estrazioni culturali dei personaggi (non è rimasto più alcun autoctono, sono tutti stranieri: Omar, Deirdre, Arden, Caroline, Adam, Pete); la loro sessualità (etero e gay assorbiti in un unico consesso in cui la coppia omo ha il ménage più stabile); i loro ruoli sociali (moglie e amante che vivono sotto lo stesso tetto; Adam e Pete sono sì compagni, ma giuridicamente Pete è figlio adottivo del primo); la loro religione (i Gund ebrei nel cattolico Uruguay): tutto si ibrida, le razze, le culture, le famiglie, la società stessa. Persino la gondola, al centro dell'unico romanzo di Jules Gund, è un altro elemento estraneo al contesto, un pezzo d'Europa che significativamente marcisce in una rimessa, che non è solo chiara sintesi metaforica di tutto quello che nella storia risulta fuori dal proprio contesto di appartenenza, ma anche link-madeleine a quel primissimo film che aprì la carriera del regista (Venice: Themes and Variations). M'immagino Ivory che sobbalza dalla sedia leggendo la novella di Cameron, eccitato chiamare Jhabvala, avendo tra le mani la materia viva per il suo Film Definitivo (e infatti il prossimo è solo un documentario dedicato a Merchant), la chiusa strategica della sua tesi cinematografica, il suo perfetto punto di non ritorno. Ivory mette da parte l'inappuntabile registro visivo delle sue opere più recenti, quell'eleganza formale su cui tanti critici si sono concentrati (elevandola a difetto) e torna alla camera a mano, a quell'approccio visivo più grezzo e meno calcolato che avevano le sue opere indiane, non disdegnando il filmato (vero e falso) di repertorio (i titoli iniziali, su Venezia; la splendida proiezione casalinga: flashback proiettato, musicato e commentato in diretta da Adam - cfr. Autobiografia di una principessa -). L'adattamento di Ruth Prawer-Jhabvala risponde alle consuete caratteristiche, affondando con voluttà nello stagnante confronto tra i personaggi che porta allo stremo l'esasperata verbalità, con calcolati, strategici cambiamenti rispetto al romanzo (soprattutto nel finale). Al solito scintillante il cast nel quale spiccano Laura Linney, (una meravigliosa Caroline che pronuncia le battute più ivoriane: «Come può uno straniero capire questo posto?»; «Scriva la sua biografia. Ci spieghi tutto quanto. Ci spieghi noi stessi») e il dandismo appassito di Anthony Hopkins cui il film regala ancora un ruolo memorabile e la sua scena più bella (il dialogo con Deirdre).

Amo il cinema di James Ivory.