Drammatico, Sala

QUANDO C’ERA MARNIE

Titolo OriginaleOmoide no Mânî
NazioneGiappone
Anno Produzione2014
Durata103'
Tratto dadal romanzo di Joan G. Robinson
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Nel nostro mondo, esiste un cerchio magico invisibile. C’è l’interno del cerchio e c’è l’esterno. Io sono all’esterno.
Anna è una ragazzina introversa che vive “fuori dal cerchio”. Ha difficoltà relazionali e un grande vuoto negli affetti famigliari. Inoltre, soffre d’asma. Per questa ragione, dalla città di Sapporo in cui vive, viene inviata all’Hokkaido orientale, per respirare l’aria benefica del mare.
È qui che incontra Marnie, coetanea espansiva eppure solitaria e misteriosa…

RECENSIONI

Sembra un film sull’amicizia segreta, non priva di cenni amorosi, fra due ragazze simili e opposte, ma si rivela poco alla volta ricostruzione di un passato perduto e ritrovamento di un sé smarrito nel tempo, nella solitudine e nelle avversità della sorte.
A ricucire i frammenti perduti, partecipa l’immaginazione e la sua forza evocativa (quella di Anna), l’affetto immotivato e necessario dei complici di passaggio (la bambina Sayaka), la memoria e il racconto (l’anziana pittrice), le famiglie putative.
Ma, simbolo e coadiuvante dell’unione fra presente e passato, fra Anna e Marnie, è l’acquitrino: alta marea e bassa marea scandiscono gli incontri e le distanze, sono l’assenza e l’assenza colmata, l’immobilità e il movimento, l’isolamento e la ricerca, l’apparire e scomparire che unisce le due ragazze in un legame fantasmatico (in verità tutto annodato nel meccanismo dei ricordi infantili di Anna che si proiettano in immagini, risvegliate da un luogo dove un tempo sono state reali).
L’acqua, elemento dalla forte simbologia rituale, è presenza attiva, e il paesaggio è protagonista che si avverte nella trasparenza del disegno, nella delicata ricchezza dei suoni.
Omoide no Mānī (lett. Marnie dei ricordi), Quando c’era Marnie, esplicita già dal titolo un sottile legame tra passato e presente, filtrato dalla dimensione del sogno e del ricordo.
Ne emerge la (ri)scoperta di un amore suggellato da un perdono tra due generazioni e l’annuncio di un nuovo inizio. E questo è anche quello che il film in sé doveva rappresentare nella filmografia dello studio Ghibli. Una sorta di struggente congedo con un passato verso il quale si è debitori (Hayao Miyazaki ha scritto la sceneggiatura del primo film da regista di Yonebayashi, Arrietty - Il Mondo segreto sotto il pavimento), ma dal quale le circostanze obbligano ad allontanarsi (è il primo film Ghibli a non aver ricevuto alcun apporto creativo da parte dei padri fondatori Hayao Miyazaki e Isao Takahata).
Per questo, una lettura del film non può essere di certo dipendente ma nemmeno disgiunta dalle circostanze che lo vedono nascere e che lo legano inevitabilmente a una domanda di fondo: che ne sarà dello studio e dello stile Ghibli senza i suoi nomi di spicco?
Nell’ultimo decennio, alla guida dei lungometraggi si sono puntualmente (o quasi) alternate le vecchie guardie, Miyazaki e Takahata, e le nuove leve, Goro (figlio di Hayao Miyazaki ) e, appunto, Hiromasa Yonebayashi, che sembravano dover prendere le redini creative dello studio. Cosa bizzarra da notare, Yonebayashi, proprio come Miyazaki, ha un passato da animatore con all’attivo molte produzioni Ghibli come intercalatore e animatore mentre Goro Miyazaki è un regista non animatore proprio come Takahata.
Ma qualcosa non ha funzionato a dovere e nessuno dei due è riuscito a ripetere gli incassi e/o l’accoglienza stellare dei film dei Maestri.

Quando c’era Marnie, nello specifico, è stato un pesante flop in patria e rischia di essere l’ultimo film del glorioso studio giapponese. [1]
Che l’eredità lasciata sia ingombrante e maestosa (proprio come la magnifica villa sull’acquitrino dipinta con dovizia di particolari nei fondali) è cosa indiscussa, ma la sensazione, quasi banale a dirsi, è che, venuta meno la profondità concettuale di Miyazaki e l’intimità poetica di Takahata, ciò che resta è “solo” un bellissimo affresco raffinato dalla ventennale esperienza di uno studio che, ora come non mai, deve necessariamente trovare una propria identità rielaborando stile e poetiche ormai assodate e riconoscibili.
E non si tratta di un nuovo dilemma. La Disney stessa impiegò decenni a ritrovare una nuova età dell’oro dopo la morte del suo creatore. Una golden age resa possibile da un cambio di formula (il musical di Broadway) ed esperimenti stilistici che però non hanno mai tradito il distintivo appeal tipicamente disneyano.
Nei Ghibli invece il comparto grafico, come da tradizione, non ha mai mostrato segni di cambiamento o sperimentazione (se non in The Tale of Princess Kaguya -  La Storia della Principessa Splendente) col rischio che sia il character design che le scelte stesse di acting non siano altro che una variazione sul tema.
Molte animazioni (risate, corse, rossori) attingono infatti a piene mani a una libreria di vezzi e movimenti abusata e ormai tipica di tutta la cultura anime giapponese, appiattendo (o esasperando) l’interazione fra i personaggi, i cui tratti specifici finiscono per incasellarsi in categorie predefinite.
Ma si tratta tutto sommato di peccati veniali, perché, fortunatamente, l’intesa, tra le due ragazze funziona ed è tra le cose più riuscita del film.
Meno riuscito è l’epilogo che, dopo un riavvolgersi dell’intreccio sulle proprie formule ormai assorbite e ripetute, pur con un sottile progredire verso il disvelamento della realtà, si fa trama esplicitata da un racconto che giunge più chiarificatorio che sorprendente, la delicatezza sembra soccombere al carico del pathos, di certo non nuovo nella tradizione giapponese, ma qui privato di un’energia interna e deprivante della poesia che gli sfondi e le premesse dispiegavano così bene.

[1]  Se già il ritiro di Hayao Miyazaki aveva minato il futuro dello Studio, l’abbandono anche da parte di Yonebayashi insinua ulteriori dubbi. Recentemente il regista ha dichiarato di volersi dedicare a film di altro genere, profondamente diversi da Quando c’era Marnie.

Alessia Astorri & Michele Sottile