Thriller

PSYCHO

Titolo OriginalePsycho
NazioneU.S.A.
Anno Produzione1998
Genere
Durata103'

TRAMA

Marion ruba una forte somma e si dà alla fuga, ma viene uccisa nel motel gestito da Norman Bates…

RECENSIONI

Gus Van Sant prosegue la sua personalissima esplorazione dei limiti del cinema: se “Da morire” è un noir condotto al parossismo e al comico dall’idiozia dell’America di oggi, questo “Psycho” è un thriller dominato dal brivido della (de)costruzione. E non si tratta di remake, rifacimento, sinonimi o affini.
“Psycho” non è la riproposta di una vicenda, ma la messinscena di un testo, il film di Hitchcock, affrontato al tempo stesso con rispetto e ironia. Il buon Gus, affiancato da chi ha contribuito all’originale (lo script è di Joseph Stefano) o lo conosce a fondo (Danny Elfman propone una nuova orchestrazione della partitura di Herrmann), vuole non ricostruirne l’atmosfera (sarebbe stupida follia), ma riflettere sulla struttura visiva e narrativa del testo.
Testo rispettato in tutto: intreccio, dialoghi (tranne qualche adattamento addebitabile alla moda o all’inflazione), découpage, titoli di testa (cambia il colore dominante, da nero a verde). Le celebri inquadrature hitchcockiane (il prologo “aereo” e zoomante, la morte del detective) sono riprodotte con cura filologica, e le modifiche prodotte dalla tecnologia sono (quasi) inavvertibili.
La tensione non è eliminata, anzi, alimentata, dalla perfetta conoscenza del modello: lo spettatore è indotto a spostare la propria attenzione dalla torta (che ha già divorato) alla scatola che la contiene e la esalta. Avviene quello che Hitch ha sempre dichiarato di voler evitare: ci si accorge della presenza del regista. Van Sant propone una sorta di guida per aggirarci con maggiore dimestichezza (ma senza pedanteria, o, peggio, la presunzione di capire tutto) all’interno di una grandiosa macchina cinematografica.
Ma il nuovo “Psycho” non è soltanto un saggio critico. Il regista (quello più giovane, un Truffaut appena più rock) ha una visione del mondo per molti aspetti differente da quella dell’illustre collega, e non rinuncia ad applicarla al racconto. Non c’è spazio per la routine, lo spirito da supplente, la timidezza: Van Sant trova in “Psycho” echi delle proprie ossessioni, e li pone in rilievo.
La follia di Norman è frutto di un Edipo irrisolto non troppo distante da quello che affligge i protagonisti di “Belli e dannati”, e tutto il film è percorso da un’atmosfera marcatamente sensuale, unita fin dal prologo a una vena umoristica lievemente acida, che non può non rimandare a “Da morire”; Marion gioca alla dark lady e perde, come l’eroina televisiva Suzanne Stone, e le visioni oniriche (del regista? di Norman? di chi?) sono sospese e sottilmente inquietanti come quelle del giovane Mike.
Norman, interpretato da un Vince Vaughn forse alla sua interpretazione migliore (finora), è, prima che uno psicopatico, un essere irrimediabilmente condannato alla solitudine, un “diverso” che (non) vede nell’omicidio il solo mezzo di espressione del proprio sentire. Hitchcock si mantiene distante dai suoi personaggi, concentrandosi su immagini e suoni: Van Sant, smontando il materiale, rende per così dire giustizia all’albergatore più imprevedibile della storia del cinema.
La recitazione è colma di rimandi affettuosamente sfottenti, mai banali: Anne Heche è meno naif di Janet Leigh, ma altrettanto oppressa dal rimorso e dal terrore, Julianne Moore sfoggia sguardi obliqui da manuale, Viggo Mortensen è disposto a ironizzare sul proprio stereotipo di “caldo amante”, William H. Macy è un Arbogast in rischioso equilibrio fra cinismo e cautela.