Drammatico

PROSSIMA FERMATA FRUITVALE STATION

Titolo OriginaleFruitvale Station
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2013
Durata85'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

L’ultimo giorno di vita di Oscar Grant, ventiduenne di colore alla periferia di San Francisco: qualche precedente penale, problemi col lavoro, una compagna, una figlia di quattro anni. In seguito ad un futile incidente, la notte di Capodanno del 2009, Oscar viene fermato dalla polizia, ammanettato e ucciso. Tratto da una storia vera.

RECENSIONI

Prossima fermata Fruitvale Station, opera prima del giovane esordiente americano Ryan Coogler, è uno dei maggiori successi indie dell’ultimo anno. Esordisce con doppietta di lusso al Sundance 2013 (Gran premio della giuria e Premio del pubblico), passa per Cannes in competizione Un Certain Regard, poi da lì strada aperta a festival e premi in tutto il mondo. Forte di una distribuzione targata Weinstein e sulla scia fortunata dei precedenti trionfatori Sundance (Precious, Un gelido inverno, Re della terra selvaggia), il film viene da subito considerato un possibile outsider per gli Oscar. La sua corsa trionfale si ferma però proprio sul ciglio dell’Academy, dove infine non ottiene nessuna nomination. (Un’opera dal tema forte – la violenza sulla popolazione di colore, segnale di un razzismo non ancora sedato – ispirata ad una storia vera, un certo impatto emotivo, un gruppo di attori decisamente convincenti: cosa non ha funzionato? Forse a penalizzarlo è stato proprio il vincitore, 12 anni schiavo, film d’altra stazza e propositi estetici, ma che in fondo ci dice la stessa cosa, seppur in un diverso contesto storico-sociale).

Fruitvale Station è un esempio da manuale di film in cui il tema sovrasta l’opera, in cui l’urgenza del contenuto mette in ombra la realizzazione, e influenza (se non proprio depista) il giudizio sul film stesso. Il debutto di Ryan Coogler, in altre parole, pone dei problemi etici di lettura, difficoltà che si manifestano nel rapporto critico dello spettatore chiamato a fare i conti con una storia vera, recente e che suscita un’indignazione smisurata e necessaria: un ragazzo ucciso senza ragione, o molto probabilmente solo perché di colore, per mano di quelle stesse forze dell’ordine che dovrebbero vigilare sulla nostra sicurezza. Coogler non si lascia andare, di fatto, a furbizie e ricatti emotivi, neppure quando sceglie di aprire e chiudere il film con sconvolgenti immagini di repertorio, fra cui quelle reali dell’assassinio di Oscar Grant filmate da un cellulare. Il bagaglio etico, emotivo e sociale del film rimane sempre però il pre-testo costante attraverso cui immaginiamo l’opera. Quanto incide dunque la nostra sincera commozione sul giudizio critico del film?

Fruitvale Station soffre di una scrittura decisamente schematica che ingabbia la narrazione in un susseguirsi di scene (di cui alcune apertamente metaforiche) il cui obiettivo è svelare tutto il bene e tutto il male del protagonista. Coogler cerca di restituirci le sfumature di un personaggio diviso fra un passato delinquenziale e una ritrovata volontà di redenzione, ma manca di fluidità nel racconto. Nerbo e complessità scarseggiano per i primi due terzi del film, preoccupati ad inanellare una serie di scenari del già visto, di cui una mezza dozzina di stereotipi da cinema indipendente americano: disagio sociale, problematiche razziali, l’inquietudine della provincia americana, una famiglia in qualche modo disfunzionale o comunque non canonizzata. Anche la messa in scena risulta incerta, tutta proiettata alla rappresentazione della tragedia annunciata (nel finale), ma dubbiosa su quale direzione prendere nell’attesa. Questa esitazione si traduce anche in termini di resa estetica del film, dramma ad ambientazione urbana che rifugge da fronzoli e formalismi, ma che non sembra mai trovare una dimensione visiva distintiva. Si riduce allora all’utilizzo di una serie di strategie espressive collaudate (la telecamera a mano, cos’altro sennò!) come se si trattasse di una grammatica irrinunciabile della lingua, ma senza che se ne percepisca mai la ragione o l’urgenza al di là della definizione tecnica da dizionario.
Gli ultimi venti minuti, che coincidono con l’uccisione di Oscar Grant e l’annuncio alla famiglia, si impennano però in un crescendo emotivo non indifferente, un finale azzeccato che risolleva decisamente le sorti del film. Coogler non perde l’occasione per far risaltare tutti gli elementi chiave: la brutalità della polizia, l’insensatezza della violenza, il razzismo strisciante. E soprattutto: la disperazione di una donna davanti alla morte del proprio uomo, la tragedia di una madre a cui uccidono un figlio. In questo frangente risaltano ulteriormente le perfomance degli attori, di gran lunga l’elemento migliore del film, efficaci senza mai risultare sopra le righe nonostante la meccanicità dell’impianto narrativo. Fra tutti, il protagonista Michael B. Jordan brilla per delicatezza ed intensità; Melonie Diaz (la compagna di Oscar) e il premio Oscar Octavia Spencer (la madre di Oscar) sono eccellenti nell’impersonare la forza e il dramma straziante a cui sono chiamate.