Drammatico, Recensione

PROMISED LAND

NazioneU.S.A., Emirati Arabi
Anno Produzione2013
Durata106'
Trattoda una storia di Dave Eggers
Fotografia
Montaggio

TRAMA

Steve Butler arriva in una cittadina rurale assieme alla sua collega. I due sono convinti che i locali, colpiti dalla crisi economica, siano disponibili ad accettare un’offerta in denaro della loro compagnia in cambio dei diritti di perforazione delle loro proprietà.

RECENSIONI

Campi sterminati tagliati simmetricamente da strade percorse, quasi esclusivamente, da pick up. Cittadine dove la palestra funge anche da auditorium e dove esiste un solo pub male illuminato come luogo di aggregazione sociale. Affaristi vs. attivisti; il potere dei soldi vs. il potere dell'onestà. Promised Land è intriso di tutto questo, di un'americanità smaccatamente riconoscibile, sia nell'iconografia della comunità agricola, sia nelle tematiche che vedono contrapporsi una multinazionale avida, pronta a spremere la terra, e la speranza ammaccata dei contadini che il Sogno Americano fino a quel momento non l'hanno visto nemmeno col binocolo. Steve (Matt Damon) e Sue (Frances McDormand), amichevoli farabutti, si vestono come loro, si camuffano da gente locale, e col loro repertorio collaudato convincono i proprietari dei terreni a dare in affitto qualche ettaro per l'estrazione del gas naturale. Tutto da manuale, con una vistosa eccezione: il protagonista non è il classico giovane e ambizioso figlio di puttana dal sorriso killer. È ingenuo, tendente all'onestà, proviene dal medesimo background agricolo e crede davvero che prendendo in affitto quei terreni permetterà ai figli dei fattori di frequentare l'università (e, per estensione, di abbandonare quella vita come lui stesso ha fatto). C'è un accaloramento, nel personaggio di Steve, un'agitazione reale, che stona a confronto con la sbrigativa e consunta professionalità della collega Sue e perfino dell'ambientalista Dustin (John Krasinski). Lui ci crede, ci tiene, lui ha il faccino da all american boy di Matt Damon, che insieme a Krasinski si è scritto la parte su misura. Un personaggio che sta agli antipodi del feroce Dennis Quaid di At Any Price (visto a Venezia 2012), ambientato nella stessa realtà rurale soffocata dalla crisi e dagli squali. Lo script, solidissimo, steso a quattro mani da Damon e Krasinski su soggetto di Dave Eggers, edifica l'empatia per il buon Steve senza mai abbandonarsi alla costruzione di un eroe: il film non adotta completamente il punto di vista del protagonista, ma se ne mantiene sempre un passo indietro, lo sbeffeggia più o meno apertamente, mette in scena il suo disagio, il suo essere fuori posto, il suo imbarazzante dibattersi in dilemmi che non interessano (più) a nessuno. Il distacco ironico fa sì che quella di Steve, più che una tragedia, sia una farsa: appena promosso sul lavoro, incappa nella comunità più ostica che gli sia mai capitata; tenta di rimorchiare la bella del paese e finisce collassato sul suo divano; allestisce una fiera agricola per conquistare i villici, e giunge il diluvio; il disinvolto ambientalista non solo gli soffia il consenso della comunità, ma anche la ragazza. La beffa è totale, raggiunge il suo apice quando la maschera di Dustin/Krasinski cade, facendo dello sbeffeggiato Steve/Damon nient'altro che il burattino di una multinazionale dai fumettistici tratti malevoli.

Gus Van Sant, regista “su commissione” (ma il committente è il sodale di una vita Matt Damon, che ha rinunciato a dirigere per i troppi impegni), asseconda l'andamento farsesco punteggiando la narrazione di un'ironia crudele: anche la sua macchina da presa si rifiuta di prendere le parti del pupazzo Steve, anzi lo deride. Come nella prima sequenza in palestra, quando il suo discorso alla comunità viene bruscamente troncato dall'entrata in campo della locale squadra di basket: il punto di vista è piuttosto quello del pubblico, che vede esposta la scarsa rilevanza del personaggio. In una gag ricorrente nel film, l'automezzo di Sue e Steve ha costanti difficoltà d'avviamento; in una sequenza in particolare, l'auto è inquadrata in campo lungo, dall'alto, da una distanza bizzarra. Dopo un paio di inquadrature intuiamo che stiamo vedendo il raccordo sullo sguardo di un uccellino, dall'alto di un filo della luce testimone della maldestra fortuna dei protagonisti; una scelta registica iperbolicamente ironica, per creare il distacco dal suo antieroe. In questa chiave crediamo vada letto il momento puramente retorico che conclude il film: monologo a cuore aperto di Matt Damon, diretto con mano sicura da un rodato Van Sant (è un topos di tutte le sue opere mainstream, da Will Hunting a Milk, da Scoprendo Forrester a L'amore che resta), mette il cuore in pace al protagonista ma non allo spettatore. La chiusa “romantica”, con il ritorno alla  giovane maestrina e a una serie di valori più importanti degli interessi economici dell'azienda (una strizzata d'occhio al paralello finale di Will Hunting, con il famoso biglietto di Matt Damon “mi spiace, devo occuparmi di una ragazza”), segna in realtà la sconfitta definitiva del protagonista, e la sua ribadita ingenuità: la sua promozione è passata con nonchalance alla collega McDormand, il Sistema segna una vittoria schiacciante e lui, davvero, non ha fatto alcuna differenza.

Frammento del discorso politico articolato dal cinema americano 2012/2013, Promised Land, come Zero Dark Thirty, mostra l’assimilazione di un uomo alla retorica di un potere. Steve Butler è appendice viva dell’organismo multinazionale Global (un nome e, sfacciatamente, un sistema): vuole fortissimamente vuole che il suo pensiero sia conforme a quello confezionato dalla società di cui è dipendente. Letteralmente. Consciamente. E dunque per non guardarsi da fuori, per non leggere criticamente le contingenze ambientali che hanno definito la sua vita e il suo pensiero, per non confrontarsi con il proprio passato, con se stesso, Steve s’abbandona allo scorrere del progresso tardocapitalista, agisce e proferisce verbo su commissione, è figura vicaria. Corpo ottuso, coattamente ingenuo, burattino di un ventriloquo. Mentre la sua collega, cinicamente, ripete e si ripete la filastrocca esorcistica «è solo un lavoro», lavando i panni morali nell’alibi ineludibile, ovvero nell’impossibilità di vivere al di fuori del capitalismo (questione che il ridondante coup de théâtre conferma), Steve crede alla missione benefica del discorso Global: sa che i modi appartengono alla mascherata (in primis, non per nulla, vengono i costumi), al teatro di finzioni sociali, alle forme svianti della società dello spettacolo (il concerto, la fiera), ma, a differenza di Django Unchained che usa i travestimenti di questo circo, Butler si fa usare, uomo fragile che per non attentare alla propria identità, alla lettura della propria storia, al montaggio e al senso che gli ha voluto dare, si preserva, non affronta il Male che questo baraccone comporta. Un Male maiuscolo, perché il territorio principe di questo racconto è quello dell’etica: nel sermo humilis di un cinema hollywoodiano settantesco, con aperture documentaristiche che, elementarmente, creano una dialettica tra le forme canoniche del genere civile e un possibile oltre residuale, Promised Land è la storia della formazione di una coscienza che si libera dall’etica del capitale, un Bildungsroman politico, radicalmente umanista. Perché, prima di tutto, riconosce all’uomo la sua dimensione: raramente il cinema americano mainstrean ha mostrato così precisamente il lavorio incessante delle condizioni socioeconomiche sulla psicologia, e sulla morale, di un suo protagonista, raramente ha descritto la tensione emotiva, melodrammatica, tutta interiore, che lega (in ogni senso) il sé all'ambiente. Ed è proprio il conflitto tra determinismo sociale e possibile scelta individuale, il centro del film. Perché, come Flight, come La regola del silenzio, come, persino, Broken City, Promised Land individua nell'esercizio privato della Giustizia la sola, unica possibilità di ovviare all'inefficenza etica del sistema. E dunque no, non importano le parole che Steve pronuncia sul finale di questo Van Sant coerentemente, criticamente integrato: è in sé la forma del monologo, la voce finalmente liberata di un soggetto che è sempre stato interposta persona, a essere un gesto finalmente antidogmatico, una forma retorica di flebile,  donchisciottesca, esistenza, prima ancora che resistenza.

Non è certo la prima volta che il “controculturale” e sperimentale Gus Van Sant presta le sue doti registiche a racconti e drammaturgie d’impianto classico, iscritte nel DNA hollywoodiano, e non è la prima volta che si fida della penna dell’attore Matt Damon (vedi Will Hunting, scritto assieme a Ben Affleck: curioso che questo film sia, invece, scritto con l’attore John Krasinksi, che ricorda Affleck come tipo e per il modo di recitare). È la prima volta, però, che non ovvia alle convenzioni della struttura della sceneggiatura, basata su di un soggetto dello scrittore Dave Eggers, con i suoi stilemi un minimo anticonvenzionali, da “indipendente”, per fornire l’opera di uno sguardo differente. Siamo di fronte ad un Erin Brockovich tardivo, ad una pellicola indistinguibile da certe produzioni della tv via cavo e proposte in prima serata. All’inizio, ci s’illude: si pensa che Van Sant abbia accettato di dirigerla non solo per amicizia (il regista avrebbe dovuto essere Matt Damon) ma anche approfittandone per gettare uno sguardo verace sulla provincia americana mostrando, con piglio autorale, l’ingenuità dell’uomo comune di fronte alle promesse del sogno americano (vedi il titolo). Ma è la sceneggiatura a dettar legge e Van Sant s’accoda come se eseguisse il compitino da mestierante: il già poco credibile personaggio di Matt Damon, che cade dalle nuvole quando gli prospettano i danni potenziali perpetrati dall’amata compagnia di gas, nel paesino oggetto del racconto trova l’amore, riscopre il piacere delle piccole cose (infine, la prende quella limonata…) ed è telefonato che prenderà coscienza (previo colpo di scena, anche improbabile, dell’ambientalista) e ribalterà le traiettorie del suo ruolo. Momenti in cui si vorrebbe pregare il regista di esimerci dalla scena dell’outing davanti ai cittadini: invece eccola lì, e chiude pure questo brutto film.