TRAMA
1977, Sainte-Gudule, Francia settentrionale. Robert Pujol, ricco industriale, dirige con pugno di ferro la sua fabbrica di ombrelli, mostrandosi dispotico anche con i figli e con Suzanne, la “moglie-trofeo”, sottomessa e costretta alla vita domestica. Quando gli operai entrano in sciopero e sequestrano Robert, Suzanne lo sostituisce alla guida della fabbrica. A sorpresa, la donna rivela una gran competenza e capacità d’azione. Ma Robert torna dal suo viaggio di riposo in forma smagliante e tutto si complica…
RECENSIONI
Po(s)tiche
Lo si diceva già nella recensione de Il rifugio dell'eclettismo ozoniano (il suo è vero cinema del contropiede), della naturalezza (molto vicina a quella di un Almodovar) con la quale l'autore riesce a muoversi non solo tra generi differenti, ma anche tra sensibilità e modalità cinematografiche fiorite e consolidatesi in epoche diverse (la Hollywood degli anni 50, ad esempio). Non sorprende (lo abbiamo abbondantemente scritto) che, oltre ai melodrammi raffreddati e alle tragedie intimiste (la trilogia mortuaria: Sotto la sabbia, Il tempo che resta, Il rifugio) Ozon si dedichi ad applicazioni del genere solo a prima vista letterali (la commedia 8 donne e un mistero; il melodramma comme il faut: Angel etc) o a rievocazioni di mondi autoriali ben precisi con una consapevolezza risignificante tutta odierna, di come costruisca strutture riconoscibili sì, ma che mirino a destabilizzare le premesse, capovolgendo i luoghi comuni prima nell'anti-retorica, poi dissestandone anche quest'ultimo stato di negazione, frantumando le apparenze in mosaici complessi.
Da sempre tentato dagli anni 70 (Gocce d'acqua su pietre roventi, non solo fecondazione in vitro del seme fassbinderiano, ma evocazione e celebrazione di un periodo e di una modalità espressiva che ad esso si lega fortemente), in Potiche [1] il regista li fa rivivere non solo attraverso il dato esteriore (non è certo questione di abiti o di tappezzerie a fioroni), ma recuperandone il linguaggio, che è quello di un'epoca e del relativo cinema (politico: termini come rivoluzione, comunista, comitati, fabbrica, sindacato, padrone o sciopero si concentrano secondo un registro oggi assolutamente inconcepibile) e attraverso la tematizzazione del lavoro di attualizzazione che si dispiega sia nel testo (l'assunzione di un ruolo forte da parte della bella statuina Suzanne Pujol in seno al nucleo familiare prima, in fabbrica poi e nella società in seguito) che sul testo. Ozon, infatti, sembra considerare la pièce teatrale originaria firmata Barillet e Grédy (anno 1980) proprio come un potiche, ovvero un piccolo recipiente da colmare con gocce del poi. Più che in 8 donne e un mistero, infatti, il regista investe il testo di partenza di sensi e 'senni' del post: dal femminismo elementare della commedia teatrale di successo (570 repliche al Théâtre Antoine) ad un postfemminismo consapevole, dalle opposizioni ideologiche forti ad uno scontro impastato di parole d'ordine che vengono dritte dalle disillusioni o dalle nuove illusioni del presente. Questo stillicidio di 'gocce' variamente assortite fa così traboccare un bel contenitore esornativo (potiche, che da noi suona bella statuina, appunto), la bella forma Seventies implode caricata di figure e saperi novelli.
Come il testo di partenza viene riconfigurato sotto la spinta di puntuali riflussi e riflessi della Storia (la crisi economica e sociale di allora come la crisi di oggi, il maternalismo casalingo di allora quasi come i 'désirs d'avenir' della Ségolène Royal di oggi), così l'affermazione dell'identità femminile, materna e maternalista di Suzanne affrancata non avrebbe (più) senso, nel presente, se non fosse iscritta in una logica binaria spaziale e temporale: Casa=Patria, Madre=Ségolène Royale.
Suzanne Pujol: Potiche, Mater Gayorum, Ségolène Royal
I deliziosi ninnoli d'epoca sono quindi il rassicurante e irresistibile appiglio Camp facente da sfondo a una grottesca degenerazione o rigenerazione Queer del racconto originario: i Personaggi-Carattere diventano 'altro' e 'più' (Luchini-Robert Pujol si metamorfosa in Nicolas Sarkozy, con tanto di repliche esatte di alcune memorabili esternazioni del presidente francese - Casse-toi, pauvre con! e Il faut travailler plus pour gagner plus -; Jéremie Renier diventa la prototipica figurazione di tutti gli omosessuali e la Deneuve-Suzanne una sorta di idealizzata, venerabile e invulnerabile Mater Gayorum) [2].
In questo risiede l'impresa assolutamente miracolosa realizzata dal regista: sposare uno sguardo laccato e una forma del passato (anni '70) al fine di disvelare la natura eteronormativa di quel sistema figurativo e narrativo fintamente libertario, affrancandosene proprio come la Potiche Suzanne si libera delle catene del sistema patriarcale diventando donna. Le due azioni, le due reazioni, l'una nel testo (Suzanne/Potiche, Suzanne/Mater Gayorum, Suzanne/Ségolène), l'altra sul testo (attualizzazione e queerizzazione dei caratteri) si affermano parallelamente e parallelamente fanno saltare i confini tra presente e passato, pamphlet e pochade, demistificazione e idealizzazione.
More than a woman
Potiche si afferma allora non solo come una commedia con un meccanismo brillante implacabile, ma come un'operazione intellettuale in cui, immersi in un apparato formale che è commistione di tripudio filologico e feticistica ossessione personale, i personaggi sono stereotipi che si presentano, si negano, si sfaccettano, si affannano a rivestire nuovi stereotipi; se il cinema di Ozon è filiazione dell'immobile corrente post-moderna, lo è solo per la consapevolezza con cui affronta la materia cinematografica e umana. Non c'è atarassia di sguardo, mancanza di umanesimo, ironia da Ultimo Uomo, relativismo morale e nichilismo politico. C'è invece la totale, empatica ma impietosa coscienza dei limiti retorici entro cui si gioca ogni costruzione intima del proprio sé, ogni ruolo e ogni linea narrativa, nel cinema come nella vita.
E' anche un cinema attraverso il quale l'autore riesce, ancora una volta (cfr. Il rifugio), ad affermare una posizione precisa, ad esprimere un cristallino impegno, senza farne una bandiera, ma facendo del film un indiretto prodotto di critica sociale, propaganda autenticata da una pratica cinematografica mai piegata a mero strumento, ma ancor più magnificata da questo ulteriore livello di lettura.
Il tutto, come si diceva, proiettando quanto si sta vedendo nell'attualità (il nuovo machismo: a volte tornano), senza forzature o facili folclorismi [3], ma mantenendo saldo l'occhio all'epoca ritratta, (La febbre del sabato sera viene citato prima nel ballo e poi, esaurito lo stesso, attraverso la canzone dei Bee Gees More than a woman - allusivamente: più di una donna -). Quanto all'impianto, Potiche è cinema delle apparenze, formalista per coerenza interna: la teatralità esibita (cfr. Alain Resnais, già riferimento primario per tutti gli artifici scenici - dal dècor alla recitazione - di Gocce), a detta dello stesso regista, è in questo caso diretta derivazione di Hitchcock (Nodo alla gola, in primis), non meno riconoscibili sono le logiche dei set delle sitcom (che non a caso è il titolo del primo lungometraggio dell'autore), soprattutto quelle americane d'antan, né è possibile tralasciare i riferimenti alla screwball comedy - l'irridente parodismo dell'incipit -). Il teatro comunque non è in questo caso una gabbia nel quale osservare i movimenti dei personaggi-insetti (8 donne) poiché Ozon non ha remore nell'abbandonare gli interni e nel muovere le pedine in ambientazioni disparate, portando anche metaforicamente la protagonista fuori dalla casa-prigione e dal ruolo al quale è stata inchiodata, liberandola letteralmente e figurativamente. Non è dunque solo questione di modelli e stereotipi: come sempre in Ozon si scorge la tensione tra individuo e ruolo, la consistenza dell'anima dietro la superficie delle figurine, pedine con cui divertirsi nel parossistico gioco del cinema, ma soprattutto tranche [nel senso di (auto)riduzioni] de vie. Sono tensioni tipiche del pensiero moderno, immerse in una sostanza all'apparenza post-moderna: Potiche è superamento del mero esercizio meta-linguistico, sfida alla mancanza di ideologia contemporanea, riappropriazione lieve solo nei toni di discorsi politici, di questioni di gender.
Un film che dice grazie anche all'insolenza di una Deneuve sollecita a stare al gioco (Ozon, come già in 8 donne, la usa, da vero cinefilo, nella piena coscienza del suo valore iconico, si vedano non solo gli evidenti riferimenti a Les parapluies de Cherbourg: la stessa accoppiata con Depardieu echeggia quarant'anni di cinema francese, da Corneau a Truffaut [4]) e allo stato di grazia di un regista tra i pochi cineasti contemporanei a creare film in cui si specchi perfettamente l'Uomo figlio dell'Occidente alla Fine della Storia: Ozon conosce le leggi che ne governano la vita, ci gioca con olimpica leggiadria facendone materia cinematografica, restituendone la misura principe: la natura umana.
[1] Potiche sta per vaso o altro oggetto puramente decorativo. Nel linguaggio corrente è parola usata in senso dispregiativo per designare una donna che non ha alcun ruolo o che vive all'ombra del marito. In Francia alcune mogli di politici, in particolare madame Chirac o, in qualche caso, le donne della politica, come ultimamente Ségolène Royal, sono spesso criticate e definite delle potiche, delle belle statuine.
Nell'edizione italiana del film si perderà dunque un gioco di parole decisivo allorquando Suzanne, esasperata, alla notizia del tradimento del marito si ribella affermando: Questa è la goccia che fa traboccare il vaso (potiche). La sua emancipazione ha inizio.
[2] Ozon - «Il figlio Paul è un personaggio tipico delle commedie di Molière, tradizione ripresa spesso nei film di Jacques Demy, dove aleggia sempre un incesto tra giovani che si amano in modo innocente, finché un deus ex machina non dipana e risolve le cose. All'inizio non avevo previsto che Paul fosse omosessuale, ma questo mi ha permesso un capovolgimento finale e di spostare l'idea dell'incesto su una relazione tra due uomini, mantenendo nel sottotesto la domanda: è davvero incesto visto che non c'è rischio di procreare? La svolta finale non sta nel fatto che sia omosessuale, cosa che si credo si capisca piuttosto in fretta, quanto nel fatto che abbia una relazione con il fratellastro. In ogni caso il dubbio aleggia».
[3] Il tessuto citazionistico è intricatissimo. Isoliamo qualche dettaglio:
- l'impegno politico finale di Suzanne, inesistente nella commedia originale, è una parte che Ozon crea a immagine e somiglianza dell'ascesa politica della Royal (di Sarkozy-Pujol si è detto);
- il monologo della segretaria, sorta di demenziale oggetto a parte e che si chiude con un 'sarai una segretaria, figlia mia' ironica citazione di If di Kipling, è tratto da da un servizio sulle scuole delle segretarie trasmesso da Aujourd'hui Madame, famoso programma televisivo francese che viene mostrato all'inizio del film;
- il taglio di capelli di Depardieu è ispirato a quello del sindacalista Bernard Thibault, laddove quello della figlia Joelle a Farrah Fawcett;
- Fabrice Luchini, attore rohmeriano (Ozon ne è stato allievo), interpreta il capofamiglia e industriale reazionario evocando i ruoli anni 70 di Louis De Funès;
- la svolta di Joelle, donna fintamente liberata e in realtà succube del maschio e conservatrice è un riferimento autoriale preciso (Ozon - «Come in Douglas Sirk ho voluto dimostrare che spesso i figli sono più conservatori dei genitori»).
[4] Di segnali di questa padronanza (del cinema in quanto narrazione, industria divistica, parte dell'immaginario collettivo) ne è infarcita l'intera pellicola. Si ricordi almeno la sequenza dell'autostop dove il gioco tra attese dello spettatore, rilanciate continuamente dagli sguardi fuori campo della Deneuve, viene infine ripagato dal cameo di Sergi Lopez.
Manuel Billi
Giulio Sangiorgio
Ennesimo, delizioso divertissement al femminile (stavolta femminista) di Ozon, liberamente tratto da una pièce “remota” (1980, di Pierre Barillet e Jean-Pierre Grédy, quelli di La Signora a 40 Carati) come 8 Donne e un Mistero. Cita, nell’amato modo metatestuale, la commedia transalpina degli anni settanta, i modi gai di Edouard Molinaro e i colori di Jacques Demy, il cui Les Parapluies de Cherbourg è richiamato anche dalla presenza degli ombrelli. Prima descrive il marito-orco, fedifrago e irrispettoso, relegando la sua porcellana soverchiata in un universo disneyano volutamente caricato (l’incontro con gli animaletti nel bosco), poi, quando la potiche (elemento decorativo) si fa Golem, decanta le qualità femminili di una magnifica mamma ragionevole che, con modi gentili e amorevoli, riesce a conciliare tutto e tutti, non si fa irretire dai tabù (alla figlia: abortisci) e possiede idee progressiste sia nelle relazioni umane sia nell’organizzazione del lavoro. Anni settanta, però, significa anche giovani politicizzati, operai in sciopero e differenze di classe, ed ecco il proletario comunista Gerard Depardieu che, innamorato di lei da sempre, ha parimenti innalzato, alla borghese ipocrita cullata dagli agi, un piedistallo da bella statuina. Suzanne, però, vince su tutta la linea, battendo anche la sinistra, simbolo di ciò che verrà. Un testo ricchissimo di spunti e rimandi socio-storici-politici e culturali, intellettuale ma non intellettualistico perché preferisce un impianto colmo di brio e battute, eventi e dialoghi spassosi. Si chiude in musical, nel segno della riconciliazione. Divina Catherine Deneuve.