Recensione, Thriller

POTERE ASSOLUTO

Titolo OriginaleAbsolute Power
NazioneU.S.A.
Anno Produzione1996
Genere
Durata121'

TRAMA

Il ladro Luther Whitney, involontario testimone di un omicidio “eccellente” in cui è coinvolto il presidente degli Stati Uniti, è al centro di svariati mirini…

RECENSIONI

Dai tempi del suo debutto alla regia, con “Brivido nella notte” (“Play Misty for Me”, 1971), Eastwood ha sempre fatto lo stesso film. Cambiano (in fondo neppure tanto) le apparenze, ma ogni suo lavoro è la storia di un conflitto tra ragione (ordine costituito, tanto civile quanto militare e culturale) e passione (disordine, novità, istinto magari sconsiderato). Ma, a dispetto di ogni possibile previsione, raramente Clint, il “duro” per eccellenza del western anni Sessanta e del poliziesco anni Settanta, prende con decisione le parti dell’ordine: il suo punto di vista sulla faccenda è molto meno netto. Riconosce, è vero, l’importanza della razionalità per il corretto funzionamento della vita quotidiana, ma allo stesso tempo afferma la necessità di un cambiamento improvviso, anche folle e potenzialmente distruttivo, che infonda una sorta di nuovo soffio vitale ad un’umanità troppo inquadrata, fatalmente prigioniera della routine.
“Potere assoluto” rinnova il duello, contrassegnando i rivali attraverso due atti, in realtà due modi di concepire l’esistenza: il vedere ed il fare. Vede, non visto, il ladro che assiste ad un omicidio e se ne va senza fare nulla (almeno all’inizio), così come vede e fotografa, non visto, il genitore che segue a distanza la vita di sua figlia, da cui sta alla larga allo scopo di non rovinarle la vita. Il calcolo (“che cosa m’importa di questa donna assassinata?”) e l’affetto paterno sono due formulazioni del principio razionale, che entra in crisi nel momento in cui l’azione combinata di polizia e servizi segreti rende inutile la prima e fortemente minacciata la seconda. Quando sembra che tutto sia finito, una mossa “razionale” (il vedere, nella fattispecie il discorso in tv del viscido Presidente) permette il passaggio alla fase delle pulsioni, esplicata attraverso il fare (o meglio, il far fare). La vendetta, espressione dell’impulso sentimentale (la gelosia e l’odio provocato dal duplice tradimento, della fedeltà e dell’amicizia), ripristina un ordine meno ingiusto di quello iniziale, sia a livello morale sia sul piano emotivo (il riavvicinamento del padre alla figlia).
Eastwood realizza forse non il suo film migliore, certo uno dei più stimolanti a livello intellettivo: sotto l’apparenza dell’ordine (il genere cinematografico consolidato, qui il giallo con venature spionistiche, in confezione superlusso) impera il disordine (il giustiziere è un ladro, che non fa giustizia in prima persona e quasi non ne ricava alcuna purificazione, il cattivo un uomo fondamentalmente debole e vile, passivo e non certo diabolico, la donna assassinata non è una perla di virtù). Il finale riconciliatorio suona scontato, ma è una delle concessioni necessarie al mantenimento di una parvenza di ordine.
In conclusione, è meglio “vedere” o “fare”? Non è possibile dirlo con certezza. Ma, esaminando la scena migliore del film, quella del ballo, in cui s’intrecciano “vedere”, la collana della morta, e “fare”, lo scambio di battute sussurrate a fior di labbro, vediamo come sia indispensabile la perfetta fusione dei due abiti esistenziali. Il tutto senza clamore, in sordina, come la recitazione, venata di ironica mestizia, offerta da un cast magnetico, nel quale spiccano, Clint a parte, la “perfida” Judy Davis ed il sornione Gene Hackman. Ed un incommensurabile E. G. Marshall, in una delle sue ultime apparizioni sul grande schermo.

Ritorna l’antieroe eastwoodiano, messaggero di chiaroscuri, perché l’apparenza inganna (l’allegorica scena del ballo: il nixoniano presidente ha due volti di cui nessuno si accorge). Il suo fuorilegge “etico”, ritrova, come antagonista, il Gene Hackman de Gli Spietati che, pur rappresentando lo Stato (là era sceriffo), non va difeso come Nel Centro del Mirino. Le riflessioni esistenziali dell’attore/autore sono diventate precise ed amare: Callaghan è in pensione, sta pagando il fio di una vita solitaria, senza compromessi, ricca di sbagli. La prima battuta che proferisce è “Io non mi arrendo mai”, da cittadino con senso del dovere che esige verità e giustizia a qualsiasi costo: un aggiornamento della sua tematica di vendicatore oltre la legge che, dalle strade, passa alle stanze dei bottoni. Un “ladro e gentiluomo” che riscatta i propri fallimenti con prole e nazione e si specchia negli uomini d’onore (Ed Harris) che soccombono sotto il peso mefitico dell’ingranaggio del potere assoluto (c’è un’inquietante specularità, anche, fra il killer “statale” e quello di professione: Eastwood ci costruisce sopra un emblematico montaggio parallelo). Vive un’avventura ricca di tensione, dal sapore acre mitigato dall’autoironia che lo contraddistingue (il regista e il personaggio) e dal falso lieto fine (al popolo lo scandalo non va rivelato: il gregge ha bisogno del pastore). Apparenze ingannevoli: la figlia scopre di essere stata sempre sorvegliata da un premuroso genitore mai fisicamente presente, condannato al voyeurismo anche nelle scene d’apertura (l’espressione alla vista del sesso violento, fra lo stupore e il disgusto, è un portento), e sullo sguardo c’è un’esortazione ad agire meta-testuale, rivolta al “guardone”, allo spettatore, perché i presidenti hanno fatto il loro tempo (la sequenza in piazza ai danni del testimone, non a caso, ricorda l’assassinio di Kennedy). Oggi bisogna cercare l’integrità morale nel cittadino comune, forse nel delinquente più incallito. Disilluso, magnetico nonostante certe lacune [¹].

[¹] I due agenti segreti che, ignari ci sia qualcuno nella stanza, impugnano le pistole e corrono per recuperare il coltello; gli stessi che, vedendo la preda sul “Bellavista”, non tentano di ucciderla; l’onniscienza del killer che scopre il luogo dell’incontro, quella del protagonista che sa che la vita della figlia è in pericolo oppure è certo che Sullivan abbia assoldato un killer.