Animazione, Fantasy

POLAR EXPRESS

TRAMA

Un ragazzino comincia a dubitare dell’esistenza di Babbo Natale. La sua credenza verrà rinfocolata da un treno espresso diretto al Polo Nord e da Babbo Natale in persona.

RECENSIONI

Il conflitto tra fantasia 'anarchica' (il magico suono dei campanellini, le renne volanti, l'ubiquo Babbo Natale) e principio di realtà (il campanellino non emette alcun suono, le renne non possono volare, non è possibile sospendere le categorie del tempo e dello spazio), tra sogno e razionalità, in ultima analisi tra due mondi, quello dell'infanzia e quello dell'età adulta - con il suo sistema legislativo che rigetta il soprannaturale, salvo poi farlo rientrare subdolamente nelle religioni rivelate - viene sommerso in ettolitri di melassa. Quello che poteva essere, letteralmente e metaforicamente, un Bildungsroman con tanto di ingresso nel mondo della ragione e tentativo di dilazionare nel tempo tale entrata salendo sul treno dei 'bambini sospesi', ovvero bambini cui il 'giocare' lato sensu (con le parole e le cose) comincia a non interessare più ma che non sono ancora adolescenti, dopo un promettente inizio si tramuta in un panettone indigesto, inutilmente retorico laddove vorrebbe essere commovente, con un meccanismo narrativo elementare, fatto di colpi di scena telefonati e di prevedibili andirivieni su 'montagne russe' polari.
Anche la scelta di affidare al digitale il compito di forgiare il regno di Babbo Natale ed addirittura rimpiazzare carne e sangue umani, per quanto possa essere suggestivo dal punto di vista percettivo assistere alla proliferazione di paradisi artificiali dell'infanzia ed interessante e curioso vedere Tom Hanks 'vestire i panni' di un bimbo, di un macchinista, di Babbo Natale, di un fantasma, appare incomprensibile ed ingiustificata, a meno che non si attribuisca a tale soluzione stilistica un valore, come dire, 'metadiscorsivo': in questo caso, la natura doppiamente fictionelle del film (la performance capture che (ri)produce l'effetto di realtà, la recitazione dell'attore che dunque raggiunge il pubblico attraverso un 'filtro digitale') potrebbe essere letta come la configurazione formale del conflitto, al centro del racconto, tra realtà e sogno, tra principio di realtà e principio di piacere, della dialettica tra finzione della realtà e realtà della finzione, oltre che una riflessione molto zemeckisiana sulla 'consistenza' dell'artificio fictionel. Ma sarebbe soltanto una forzatura nel processo ermeneutico: tale scelta, pare piuttosto il frutto acerbo di un esperimento fine a se stesso, in cui l'unica cosa che si chiedeva al plot (tratto da uno sciropposo racconto di Chris Van Allsburg, rielaborato dallo stesso Zemeckis) era di essere adatto ad un pubblico di età inferiore agli otto anni, dal momento che lo spettatore adulto si sarebbe concentrato sulla forma 'rivoluzionaria' (ignorata dagli infanti) 'dimenticandosi' del convenzionalissimo contenuto.
Al di là dei limiti ancora evidenti nella simulazione soprattutto dei movimenti umani (questi esseri con i codici 01 e 10 al posto del DNA si muovono come robot dagli ingranaggi arrugginiti) e delle espressioni di un volto 'tutto occhi' (due o tre in tutto), ciò che convince di meno e che rende quest'operazione un parziale fallimento è la sostanziale vacuità ed inanità del progetto, mal concepito più che mal realizzato. Zemeckis cade nella trappola che hanno abilmente saputo aggirare i geni della Pixar: quando la tecnica è un fine e non un semplice mezzo, lo sguardo digitale stenta a diventare 'visione' e lo stile entra in uno stato di latitanza.
Scrostando la melassa accumulata in superficie, si colgono due o tre 'marche autoriali' dello Zemeckis del tempo che fu: il biglietto che svolazza come la piuma di Forrest Gump (scena narrativamente irrilevante ma concettualmente forte); il fantasma che ammonisce il giovane 'non credente', in cui pare materializzarsi, seppure in una presenza fantasmatica ed evanescente, lo spirito dei pionieri sognatori, da Tom Joad a Woody Guthrie. Ma non bastano questi ammiccamenti o squarci rappresi di poesia.
Molti credono che The Polar Express segnerà una tappa importante nell'evoluzione del linguaggio cinematografico. A mio avviso, questo di Zemeckis pare un tentativo destinato a rimanere isolato, ma se dovesse diventare un modello per la posterità cinematografica verrà ricordato nei manuali di storia del cinema negli stessi termini in cui oggi vengono considerati Il cantante di Jazz o La tunica: film mediocri tecnicamente seminali.

Pubblicizzato come la favola piu' bella di Natale, "Polar Express" si caratterizza in realta' come un indigeribile misto di melassa e retorica ed e' soprattutto, la distribuzione ha dimenticato di aggiungerlo, un horror involontario. Ma procediamo per gradi. Da prodigioso sperimentatore, anche questa volta Robert Zemeckis si fa portatore di innovazioni. La tecnica utilizzata si chiama "performance capture", ed e' un'evoluzione del sempre verde "motion capture"; in pratica, si tratta di un sofisticato software in grado di "pixelizzare" cio' che e' umano, attraverso una serie di sensori posti sul viso degli attori. L'effetto, sicuramente curioso, e' pero' piu' adatto per le attrazioni di un parco giochi o per il grande schermo di un Imax, mentre l'applicazione per il cinema, almeno nell'adattamento della favola di Chris Van Allsburg, provoca un effetto straniante, dispensatore di un fascino sinistro poco incline al tono fiabesco e zuccheroso del racconto. L'atmosfera, infatti, si carica di cupezza e i personaggi assumono presto connotati inquietanti. Non tanto Tom Hanks sdoppiato in cinque, il suo viso solare anche digitalizzato resta un'icona di sani principi e ottimismo, quanto i piccoli interpreti: il protagonista, ricalcato anch'egli alla lontana su Tom Hanks, ha occhi di ghiaccio e sguardo fisso poco rassicuranti, la bambina nera sembra un varano in agguato e il piccolo povero e mesto non sfigurerebbe come novella figlia di Fantozzi. Mostruosi macchinista e fuochista del treno e terribili i piccoli elfi, con canti e balli (e indegno doppiaggio in dialetti regionali italiani) che non riescono a contenere i segni tangibili di una possibile minaccia. L'esito complessivo fa un baffo a "The Grudge" e sul clima lugubre incide non poco l'incapacita' della tecnica di rendere fluido il semplice camminare dei personaggi, sempre innaturalmente ballonzolanti come zombie e, per questo, ancora piu' spaventosi. L'unica cosa davvero soprendente e' la corsa a perdifiato del treno per raggiungere il Polo Nord, dove vive Babbo Natale. Chiunque, bambino o adulto, non puo' non restare affascinato dall'idea di un treno rapito dalle oscurita' della notte, tra boschi, laghi ghiacciati, ponti filiformi sul vuoto e montagne russe tra le rocce. Ma il senso di meraviglia dura un attimo, giusto il tempo di perdersi nel prodigio dei suggestivi fondali in computer grafica, perche' la sceneggiatura non consente ulteriori tappe. Sono troppe le amenita' moraleggianti in cui cade la narrazione. Gia' non si capisce perche' solo alcuni bambini vengano selezionati per la grande avventura e perche' in mezzo a tanto gelo nessuno, in ciabattine e pigiama, abbia mai freddo. Si dira' che e' sogno, incanto, magia, allora perche' temere per gli incidenti di percorso in cui incappano i personaggi, nati soprattutto dall'esigenza di riempire in qualche modo la prima parte del film? E poi, questa spada di Damocle del biglietto da avere a tutti i costi! Prima vieni invitato a salire su un treno e poi se non hai il biglietto sono guai, per poi, alla fine, avere l'onere di vederti stampata una fastidiosa etichetta: tu sei un capo, tu sei un incredulo, tu devi essere meno arrogante. A tanti sciocchi giudizi (perche' non lasciare che un bambino impari dai propri errori senza marcarlo fin dall'infanzia?), si aggiunge il solito egocentrismo vincente mascherato da naturale timidezza, con la necessita' di essere cauti al fine di primeggiare doppiamente sugli altri. Non a caso il protagonista verra' scelto, senza un perche' occorre sottolineare, tra l'invidia e l'ammirazione di tutti per essere il primo a ricevere i doni di Babbo Natale. Insopportabile poi la moralona finale che invita tutti, grandi e piccini, a "credere". A che cosa il film non ha il coraggio di dirlo (la visione e' totalmente laica) per non precludersi fette di audience, anche perche' la sceneggiatura si ingarbuglia in una contraddizione di fondo: il bambino finira' per credere all'esistenza di Babbo Natale (anche lui derivante da Tom Hanks e con la dolcezza di un capo militare) solo quando finalmente lo vedra'. Perche' mai il pubblico dovrebbe comportarsi diversamente e imparare che bisogna credere a priori? E cosi', tra frasi fatte assolutamente prive di senso ("non importa dove va il treno, l'importante e' decidere di prenderlo"), effetti digitali imponenti, canzoncine edificanti, il regalo come massima ambizione e fine ultimo del Natale, messaggi grevi di pura superficie, metafore insopportabili (il suono della campanella come simbolo della capacita' di mantenere intatto lo stupore dell'infanzia) e l'horror sempre in agguato, finalmente il treno conclude la sua corsa. Il ritorno alla realta' porta una sensazione di occasione perduta. Soprattutto, perdibile.