Horror, Recensione, Sala, Thriller

PIOVE

TRAMA

Piove tanto, ultimamente, a Roma. E ogni volta che succede, come imprigionata in un incantesimo malefico, la città viene assalita da un misterioso vapore che sale dalle fogne e accende violentemente il rimosso e la rabbia di chi lo respira, un fumo che trasforma le persone, dentro e fuori. Capiterà anche alla famiglia Morel, una volta unita e felice, e adesso in frantumi dopo la morte di Cristina che ha lasciato suo marito Thomas e i figli Enrico e Barbara sperduti, feriti, incapaci di contatto.

RECENSIONI

Un ottuso divieto ai minori di 18 anni che ha notevolmente intralciato il cammino commerciale del film, sino alla recentissima sentenza del Tar del Lazio che ha abbassato il divieto ai minori di 14 anni, accogliendo il ricorso della casa di produzione Propaganda Italia. Una sceneggiatura che, firmata da Jacopo del Giudice, si era aggiudicata nel 2017 il Premio Solinas per il suo essere, tra le altre cose, un «“horror dei sentimenti”, senza precedenti nel nostro Paese». Un film concepito e scritto prima della pandemia ma che ne è uscito cambiato; un’opera che avrebbe dovuto essere diretta da Gustavo Hernández, poi impossibilitato a raggiungere l’Italia, e che infine si è affacciata per la prima volta davanti agli occhi di Paolo Strippoli, classe 1993, mentre dirigeva per Netflix il suo primo lungometraggio A Classic Horror Story, a quattro mani con Roberto De Feo. Strippoli ha rifiutato, tentennato e poi accettato, tornando con Del Giudice sul testo, per mettere in scena - afferma - un mondo, qui riassunto nella Capitale, la città in cui il regista pugliese vive, «costantemente sul punto di esplodere». Un mondo tradotto in un racconto famigliare e collettivo, nella linea invisibile che scorre tra il sommerso di un lutto privato e sociale lungo i capitoli Evaporazione, Condensazione e Precipitazione. Piove è il dramma di una follia strisciante, un documentario trasfigurato, una città denaturata che sdoppia la cittadinanza del film tra il reale e il fantastico, tra il noto e lo sconosciuto, il vero e l’informe, il quotidiano e la paura. E qui, la pioggia - che da sempre nel cinema sa molte volte farsi racconto nel racconto, immagine portatrice di parallele disposizioni estetiche, di soglie e snodi narrativi, di scene madri e cult, di abissi e catarsi, di future memorie (cinefile o private che siano, dalla sala ai meme) - sembra quasi attendere più il Rutger Hauer di Blade Runner che la mano dell’amato Dario Argento. Un horror puro dentro un falso movimento, passando tra pieghe e umori carpenteriani e un omaggio “mostruoso” all’arte di Bacon; un horror dell’inquietudine, soprattutto. «L’inquietudine – spiega Strippoli - non è il fine ma il mezzo. Il mezzo per narrare la storia universale di un’umanità sul piede di guerra e allo stesso tempo la storia intima di un padre e di un figlio che un evento traumatico ha reso uguali a quell’umanità collerica che li circonda».

Un’opera sulla rabbia e sul vuoto profondo del nostro tempo, una famiglia orfana di madre (Cristina, interpretata da Cristiana Dell’Anna) e di amore: un adulto (Fabrizio Rongione) e un adolescente (Francesco Gheghi), Thomas ed Enrico, immobilizzati dalla perdita e incapaci di riannodare i fili di un rapporto padre-figlio soffocato dalla colpa e dalle accuse; una bambina, Barbara, che li osserva, soffre e reagisce come può. Una prostituta (Elena Di Cioccio) che sembra l’ultima innocenza dell’umanità, ma che vediamo troppo poco. Tutti traiettorie, punti di fuga, fili metallici tesi da un burattinaio cinico, niente affatto misericordioso, languido nei bassifondi. Il non detto, il misteriosamente taciuto, il veleno ingoiato, il vapore denso del rancore sono i chiodi inflitti in questo derma familiare, la ferita non guarisce, il sale sopra vi è sparso, lo sterminio sembra imminente, eppure… In tutto questo Strippoli non indugia, si prende tempo, governa con sapienza, con eleganza il metaforico, e con straniata scansione eppure partecipe aderenza le rotte critiche dei suoi personaggi, deviate da pulsioni nascoste e lontane che deformano la realtà e la coscienza. Piove allora può espandersi: si muove angosciato negli spazi tra i piani, tra interni di case e anonimi esterni di quartiere, tra la superficie e il sottosuolo urbano, tra ciò che separa e unisce il bene il male. Il regista affina il discorso partendo da un immaginario horror con coordinate abbastanza precise, inchioda alla propria colpevole banalità le immagini di oggi e infine trova nelle fiamme, ancora nel cinema, nel fuoco, in ciò che brucia, l’unica luce, l’ultima salvezza possibile.